Il fascismo è stato l’elemento caratterizzante della storia italiana dagli anni immediatamente successivi alla fine della Prima guerra mondiale fino al 1945. Fondato da Benito Mussolini, già esponente socialista espulso dal partito per le sue posizioni interventiste e propugnatore di vaghe idee su un nuovo assetto sociale estraneo al conflitto di classe, il movimento fascista

si caratterizzò per lo spirito fortemente nazionalista e per un attivismo che
si proponeva come alternativo alla debolezza dei governi liberali. Capace
di intercettare gli umori di ampi strati della borghesia, preoccupati dal sovversivismo socialista e sindacale dell’immediato dopoguerra, si trasformò da movimento rivoluzionario dominato dalle formazioni squadriste in partito d’ordine. Con la marcia su Roma, nell’ottobre del 1922, le istituzioni e la monarchia cedettero alle pressioni delle camice nere e Mussolini fu incaricato di formare il governo. Da quel momento il regime si sarebbe progressivamente consolidato, prima attraverso le intimidazioni durante la campagna elettorale del 1924, conclusesi con l’assassinio Matteotti, poi con una completa svolta autoritaria a partire dal 1925, che comportò l’abolizione dei partiti, la censura sulla stampa, il divieto di sciopero e l’istituzione di una polizia politica segreta. Grazie a uno spregiudicato impiego della propaganda, negli anni ’30 il regime riuscì a veicolare nei suoi confronti anche un diffuso consenso.

Dalla fondazione dei Fasci al 1922

Nel 1919 Mussolini fondò a Milano i Fasci di combattimento, una formazione politica che raccoglieva interventisti rivoluzionari, ex combattenti (soprattutto arditi), futuristi, repubblicani e anarcosindacalisti, accomunati dalla richiesta di una politica estera più “dinamica” e da istanze di rinnovamento sociale. Immaginato da Mussolini come polo di riferimento per la sinistra interventista, nei mesi successivi il movimento apparve però vitale solo a Milano, dove alle elezioni del 1919 subì comunque una bruciante sconfitta.

Mussolini non scomparve tuttavia dalla scena politica, grazie al sostegno portato all’impresa di D’Annunzio a Fiume e alla ripresa di parole d’ordine nazionalistiche di facile presa nell’atmosfera della “vittoria mutilata”. Il fascismo rivoluzionario delle origini si trasformava intanto in una for mazione impegnata a ripristinare l’ordine sociale turbato

dal sovversivismo socialista: nelle campagne dell’Emilia e della Bassa Padana si sviluppò un fascismo agrario, finanziato dai proprietari terrieri, basato su Squadre d’Azione che realizzavano spedizioni punitive nei confronti delle organizzazioni politiche sindacali e delle cooperative socialiste e popolari. Anche i ceti medi cittadini colpiti dall’incertezza del dopoguerra individuarono nel fascismo lo strumento adatto per riprendere nella società italiana quel ruolo che le vicende del “biennio rosso” avevano fatto perdere loro. Per parte sua, lo Stato liberale si limitò a cercare di incanalare nell’ambito istituzionale il movimento fascista, nella speranza di limitarne le manifestazioni violente e contenerne la spinta eversiva.

Mussolini giocò abilmente su questo tentativo di recupero legalitario del movimento (ad esempio, proclamando ufficialmente l’accettazione della monarchia), tanto che nell’aprile del 1921 fu eletto in Parlamento con altri 34 deputati, inseriti da Giolitti nelle liste dei “blocchi nazionali” varate per contrastare l’ascesa dei socialisti e dei popolari. Stipulato un trattato di pacificazione con le sinistre (3 agosto 1921) per la cessazione delle violenze squadriste, e cambiato nome al movimento (che ormai contava circa 300 000 iscritti) in Partito Nazionale Fascista (durante il Congresso di Roma del novembre 1921), Mussolini dedicò i suoi sforzi alla conquista del potere, cercando un recupero legalitario del movimento. Caduto il governo Giolitti (giugno 1921), perché le recenti elezioni non avevano dato la maggioranza sperata allo statista piemontese, il regime liberale appariva in piena crisi. Il governo fu affidato prima a Ivanoe Bonomi e poi a Luigi Facta, stretto colla- boratore di Giolitti. Sulla scia dell’esaurimento dei moti operai anche le sinistre erano profondamente divise tra socialisti massimalisti, comunisti e socialisti unitari.

La marcia su Roma
I fascisti ruppero quindi gli indugi e al congresso di Napoli (24 ottobre 1922) Mussolini diede il via alla marcia su Roma per reclamare responsabilità di governo. Provenienti da tutta Italia, le squadre fasciste, organizzate dai “quadrumviri” Italo Balbo, Michele Bianchi, Emilio De Bono e Carlo Maria De Vecchi, si diressero il 28 ottobre verso la capitale con l’intenzione di far cadere il governo Facta. Il re rifiutò di firmare il decreto per lo Stato d’assedio e la pressione sulle istituzioni si concretizzò nella nomina di Mussolini a capo del governo, il 30 ottobre 1922.

Il fascismo al potere

Mussolini formò un governo di coalizione con popolari, nazionalisti, democratico-sociali, esponenti delle forze armate e indipendenti; per mantenere i contatti tra il suo partito e il governo, istituì il Gran Consiglio del Fascismo (dicembre 1922), un organo che aveva lo scopo di propor- re le leggi costituzionali, di formare la lista dei candidati designati alla Camera e di definire le cariche nel partito. Mussolini riuscì a dimostrare di saper normalizzare la si- tuazione mantenendo il controllo sulle Squadre d’Azione e inserendo gli organismi fascisti nella struttura dello Stato. Fuso il PNF con i partiti nazionalisti, creata una forza di polizia di parte trasformando le Squadre d’Azione in Mili- zie Volontarie per la Sicurezza Nazionale (1923) e fatta approvare una nuova legge elettorale maggioritaria (legge Acerbo), il cosiddetto “listone” fascista (comprendente alcuni dei maggiori nomi della classe dirigente liberale) ottenne alle elezioni del 1924 un clamoroso successo.

La campagna elettorale e le operazioni di voto si tennero però in un clima di violenza, denunciato alla Camera da Giacomo Matteotti, segretario del PSU (Partito Socialista Unitario, nato nel 1922 per iniziativa di Filippo Turati, espulso dal PSI con altri riformisti). Per questa sua denun- cia Matteotti fu rapito e ucciso da sicari fascisti il 10 giugno 1924. Le opposizioni protestarono ritirandosi dall’assemblea e dando vita alla secessione dell’Aventino. La vicenda si chiuse il 3 gennaio 1925: Mussolini, ormai certo di avere in pugno il Parlamento, assunse alla Camera la responsabilità dell’accaduto, liquidando sostanzialmente se non formalmente le libertà statutarie e avviando quella svolta autoritaria che doveva liberarlo definitivamente delle op- posizioni. Furono progressivamente introdotte leggi che attribuivano ampi poteri al capo del governo e che privavano il Parlamento delle sue funzioni. Molti oppositori, tra cui Don Sturzo, Nitti ed esponenti di sinistra lasciarono l’Italia minacciati dalle intimidazioni del regime.

La secessione dell’Aventino

Il termine “Aventino” fu la denominazione assunta dalle opposizioni antifasciste che disertarono le sedute parlamentari all’indomani del rapimento del deputato socialista riformista Giacomo Matteotti (giugno 1924), invocando lo scioglimento della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale e il ristabilimento dell’autorità della legge.

L’intenzione degli aventiniani era quella di indebolire il governo fascista impedendone l’attività parlamentare e costringerlo così alle dimissioni. Non tutti gli esponenti dell’antifascismo si dimostrarono però d’accordo:

i comunisti si dissociarono dall’Aventino considerandolo una rinuncia alla lotta contro il regime.
Nonostante una vivace campagna della stampa dell’opposizione e nonostante le difficoltà di Mussolini dopo la scoperta dell’assassinio di Matteotti (il corpo del deputato sarà rinvenuto due mesi dopo il rapimento), l’indifferenza del re Vittorio Emanuele III, l’irresolutezza degli aventiniani e il miglioramento della situazione economica consentirono al governo di ri- prendere in mano la situazione e di eliminare in breve ogni opposizione.