ITALIA

La conclusione della Prima guerra mondiale segnò anche la fine
di quell’egemonia europea che aveva raggiunto il culmine all’inizio del XX secolo. La leadership dei Paesi industrializzati passò infatti agli Stati Uniti.
Nel 1919, dopo la fine delle ostilità, le economie dei Paesi coinvolti nel conflitto stentavano a riprendersi, tanto più che la guerra aveva provocato la morte
di milioni di giovani vite e modificato la geografia politica dell’Europa.
I trattati di pace siglati dopo la conferenza di Parigi, invece di risolvere
i contenziosi riuscirono a provocare il malcontento di vincitori e vinti.
In Italia, il mancato accoglimento delle pretese sulla Dalmazia e sui Balcani suscitò il mito della “vittoria mutilata”; la Francia temeva una possibile ripresa dell’imperialismo tedesco; l’Inghilterra osservava il lento declino del suo prestigio internazionale. Le clausole della Pace di Versailles suscitarono un forte risentimento soprattutto in Germania, dove furono interpretate come
un 
diktat volto a marginalizzare il ruolo del Paese tra le grandi potenze.

L’Italia dalla “vittoria mutilata” a Giolitti

Il dopoguerra italiano presentava con particolare accentuazione i problemi e le tensioni degli altri Paesi europei, usciti come l’Italia dalla guerra spossati, delusi, ansiosi: i reduci stentavano a riadattarsi alla vita civile, la riconversione delle industrie di guerra in industrie di pace era ardua, il bilancio era appesantito dai debiti di guerra e dall’onere del prezzo politico del pane. Le istituzioni, monarchia, governo, Parlamento, polizia, amministrazione pubblica, avevano perduto prestigio e fiducia.

Dopo il conflitto mondiale, a causa delle ridotte ricom- pense territoriali ottenute in Istria e Dalmazia, si diffuse in Italia il mito della “vittoria mutilata” che indusse Gabriele D’Annunzio a occupare, alla guida di un gruppo di volontari, la città di Fiume (12 settembre 1919).

Intanto, la situazione interna si complicava anche per gli effetti di una pesante crisi economica. La piccola e media borghesia, a causa della forte inflazione, vedeva dissolvere i propri risparmi.

I contadini (piccoli proprietari e braccianti) erano costretti a lavorare duramente per modesti compensi. Gli operai, organizzati nei sindacati, erano riusciti a strappare miglioramenti salariali. I grandi gruppi industriali si erano invece rafforzati sul piano finanziario.
I vecchi partiti si stavano logorando a tutto vantaggio di nuove formazioni che si ponevano su posizioni critiche rispetto al sistema economico-sociale. Di fronte alla conti- nua ascesa socialista – nonostante le tensioni interne tra riformisti, massimalisti e comunisti, sfociate nella nascita del Partito Comunista d’Italia nel 1921 –, la Chiesa acconsentì nel 1919 alla fondazione di un partito cattolico democrati- co, il Partito Popolare Italiano (PPI), guidato da Don Luigi Sturzo. Ad esso aderirono i piccoli proprietari contadini che auspicavano la ridistribuzione delle terre.

Nel marzo 1919, con la fondazione dei Fasci di combattimento a opera di Benito Mussolini (ex socialista e direttore de “Il popolo d’Italia”), che incarnavano il malcontento della piccola-borghesia e il risentimento degli ex combattenti, compariva un movimento destinato a diventare in breve tempo il protagonista del panorama politico italiano. L’Italia liberale entrò così in piena crisi. Al governo Orlando, caduto nel giugno 1919 per non aver ottenuto i risultati sperati alla Conferenza di pace di Versailles, fece seguito un gabinetto presieduto da Francesco Saverio Nitti (giugno 1919-giugno 1920), forte di una più larga partecipazione di cattolici e socialisti riformisti ma assillato, oltre che dal- la questione di Fiume, da agitazioni operaie e contadine (occupazione delle terre). Alle elezioni del novembre 1919 i liberali persero la maggioranza, scalzati dal grande successo di socialisti e popolari.