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La poesia siciliana

Un consistente gruppo di poeti in volgare si raccoglie attorno alla corte dell’imperatore Federico II, intorno al terzo decennio del XIII secolo.

Sono per lo più siciliani ma, dato che si tratta di una corte itinerante (Federico non risiedeva in un luogo fisso, per controllare meglio i vasti territori del suo impero), anche pugliesi, calabresi, campani, laziali; sono notai, cancellieri, funzionari di vario rango che coltivano la poesia come attività separata dagli impegni professionali.

La lingua in cui la maggior parte di loro scrive è un siciliano ‘illustre’, depurato dei tratti dialettali più marcati e ricco di latinismi e provenzalismi: una lingua diversa, quindi, più raffinata e colta rispetto al siciliano «come suona in bocca ai nativi di media estrazione» condannato da Dante nel De vulgari eloquentia (I, xii, 6) come idioma rozzo e inadatto alla letteratura.

La poesia dei siciliani (termine che va inteso, si badi bene, in senso culturale e non geografico: ‘siciliani’ si dicono per convenzione tutti gli autori che mostrano di essere in contatto con la corte di Federico II) è quasi esclusivamente poesia d’amore.

Tre sono le forme metriche adottate dalla poesia siciliana: la canzone (forma metrica polistrofica) occupa di gran lunga il posto più importante, mentre fanno qualche rara apparizione il discordo (sorta di lunga canzone in versicoli fittamente rimati e schema metrico irregolare) e il sonetto (componimento monostrofico, di solito suddiviso in due quartine e due terzine di versi endecasillabi).

L’impressione che si ricava da una lettura del non amplissimo corpus della poesia siciliana (poco più di venti autori, per un totale di circa 150 testi) è dunque quella di trovarsi di fronte a un’attività di laboratorio condotta a partire da pochi elementi-base da parte di un nucleo di intellettuali compatto per estrazione sociale e per fisionomia culturale e artistica: a questo terreno comune di linguaggio e di immagini, che può dare luogo a contatti intertestuali ma che si traduce principalmente in una forte ed estesa aria di famiglia, si affida l’identità di una scuola poetica siciliana. Ma una storia della lirica siciliana non si può scrivere perché le informazioni che si riescono a ricavare dai testi sono troppo scarse e, soprattutto, perché sono troppi i vuoti nella documentazione relativa agli autori. Si propone generalmente una scansione in due tempi: una prima e una seconda generazione siciliana.

Tale scansione è plausibile, a patto che non venga applicata rigorosamente.

Alla generazione dei fondatori, fioriti nella prima metà del secolo, appartiene Federico II di Svevia (1194-1250), cui i manoscritti attribuiscono un sonetto e tre canzoni.

Giovanissimo re di Sicilia sotto la tutela di papa Innocenzo III, quindi imperatore (1220), Federico fu per quasi mezzo secolo promotore di un’attività culturale d’eccezionale intensità sia nel campo delle arti (oltre alla produzione letteraria in volgare, latino e greco vanno ricordate le grandi realizzazioni monumentali e architettoniche, prima tra tutte l’edificazione di Castel del Monte, presso Andria, in Puglia, nei primi anni Quaranta) sia in quello della filosofia.

Culmine di tale attività è la fondazione a Napoli, nel 1224, di quella che a lungo resterà l’unica università del Mezzogiorno d’Italia.


Alla figura dell’imperatore è strettamente legata quella di Pier della Vigna (1190-1249). Originario di Capua, fu il più influente consigliere di Federico. Morì suicida nel 1249 in seguito a false accuse di cospirazione, come vuole una tradizione alla quale attinge tra gli altri anche Dante nel canto XIII dell’Inferno.

Autore di un Epistolario in latino, Piero fu anche poeta: egli è l’unico esponente della Magna Curia (la corte imperiale federiciana) per il quale sia documentato l’impiego dei due idiomi in poesia, il volgare materno e il latino.
Né l’imperatore né il suo braccio destro Pier della Vigna, tuttavia, hanno la statura dei capiscuola.

Tale ruolo compete, per la critica moderna come per gli antichi lettori di poesia, a Giacomo da Lentini. Il Notaro, com’è chiamato nei manoscritti antichi e da Dante nella Commedia, spicca tra gli altri membri della corte federiciana per maturità di stile e forza inventiva. Al suo nome sono legate tutte le conquiste formali che la poesia siciliana consegna alla nostra letteratura. Se non l’inventore, egli è certo uno dei primi frequentatori del sonetto, genere metrico che nel suo canzoniere ha un peso percentuale paragonabile solo a quello che gli verrà concesso dai rimatori toscani una o due generazioni più tardi

All’invenzione del sonetto si lega quella del genere che di quel metro sfrutta al meglio la duttilità: la tenzone, che però è poco praticata, come abbiamo visto, nell’area siciliana. Nel canzoniere di Giacomo da Lentini troviamo riuniti tutti i temi, i motivi, le soluzioni formali che ebbero corso tra i poeti siciliani. Il paradosso dell’incomunicabilità, per cui il poeta non può manifestare il suo amore se non svilendo sé e la donna, trova in lui la formulazione più esplicita: «Amor non vole ch’io clami / merzede c’onn’omo clama, / né che io m’avanti c’ami, / c’ogn’omo s’avanta c’ama» (‘Amore non vuole che chieda pietà, come fanno tutti gli altri, né che mi vanti del mio amore, dato che tutti quanti se ne vantano’). E lo stesso può dirsi per il motivo poi stilnovista dell’ineffabilità del sentimento: «Lo meo ’namoramento / non pò parire in detto» (‘Il mio amore non può essere espresso con parole’); o per quello della lontananza: «Non vo’ più soferenza, / né dimorare oimai / senza madonna, di cui moro stando» (‘Non voglio più soffrire, né stare lontano dalla mia donna, perché ne muoio’).

Il Notaro è inoltre l’iniziatore di una tradizione di poesia formalmente complessa e ‘chiusa’ (trobar clus, come si definisce in provenzale) che avrà il suo culmine in Guittone d’Arezzo: si consideri, per esempio, la fitta rete di rime interne sulla quale vengono impostati certi sonetti di Giacomo, come quello sul viso dell’amata: «Eo viso e son diviso da lo viso» (‘Guardo ma sono lontano dal viso’).
Così come Giacomo da Lentini, anche Guido delle Colonnegiudice messinese e funzionario imperiale attestato tra il 1243 e il 1280 – viene citato da Dante nel De vulgari eloquentia come poeta insigne della scuola federiciana. Di lui ci restano cinque canzoni che sperimentano i due registri ricorrenti della poesia siciliana, quello euforico per l’amore raggiunto e la «merzede» concessa dalla donna e quello simmetrico del ‘servizio’ non ripagato. Giustamente celebre è la canzone Ancor che l’aigua per lo foco lassi: per quanto riguarda il contenuto, è una delle tante preghiere rivolte alla donna perché accolga finalmente il corteggiatore «che languisce e non può morire»; per quanto riguarda la forma dell’espressione, è una sequenza di metafore naturalistiche (il ghiaccio, la neve, gli spiriti, la calamita) che non sono usuali nel repertorio siciliano ma preannunciano quelle canzoni tosco-emiliane in cui verrà dato ampio spazio alle metafore ricavate dalla scienza: si pensi su tutte, per importanza, al manifesto dello stilnovo Al cor gentil, di Guinizelli, e alla canzone-trattato sulla natura d’amore di Cavalcanti, Donna me prega.

Rimatore in volgare e prosatore in latino (un doppio binario che in altro modo abbiamo già visto essere proprio di Pier della Vigna), a Guido delle Colonne è attribuita la Historia destructionis Troiae (‘Storia della distruzione di Troia’). Si tratta di una traduzione, o meglio di un libero rifacimento in latino, del Roman de Troie, il romanzo in antico francese composto a metà del XII secolo da Benoît de Sainte-Maure, che narra le mitiche vicende troiane. Caso più unico che raro di traduzione in latino di un modello volgare, l’Historia di Guido, che conobbe un’enorme fortuna durante tutto il Medioevo, agì in profondità, anche attraverso i suoi volgarizzamenti trecenteschi, sulla formazione della nostra prosa romanzesca e storiografica.
Altri rimatori, di cui ci sono pervenuti pochi testi manoscrittil’Abate di Tivoli, laziale; Jacopo Mostacci, forse pisano; Rinaldo d’Aquino, anch’egli laziale –, testimoniano di quanto composita fosse la geografia degli intellettuali di corte.

Dopo la metà del secolo, altri poeti originariamente legati a Federico II risaliranno la penisola e agiranno da tramite con le regioni centro-settentrionali, favorendo l’esportazione della poesia siciliana dal regno e dando così un potente contributo alla fondazione della tradizione lirica toscana. Si tratta di re Enzo, figlio di Federico e re di Sardegna che, catturato dai bolognesi durante la battaglia di Fossalta (1249), fu loro prigioniero sino alla morte: in prigionia, probabilmente, e a contatto con i più antichi rimatori bolognesi, compose le due canzoni e il sonetto morale tramandatici dagli antichi codici; di Percivalle Doria, nobile genovese, autore di due canzoni amorose in volgare siciliano e di una tenzone e un sirventese politico in provenzale; di Mazzeo di Ricco, notaio messinese attestato in Toscana tra il 1252 e il 1260, di cui restano quattro canzoni e un sonetto di materia morale.
Infine, non saranno estranei all’ambiente della corte alcuni componimenti di tono popolareggiante i quali denunciano tuttavia, nella lingua e nella versificazione, una mediazione dotta. Il famoso contrasto di Cielo d’Alcamo, Rosa fresca aulentissima, dialogo burlesco tra un pretendente sfacciato e una contadina ritrosa (ma non troppo), non può considerarsi poesia di popolo. Al contrario, la coscienza linguistica, la capacità di intrecciare «modi curiali e modi realistici» (Contini), e insieme la probabile conoscenza di generi della poesia dialogata galloromanza (la pastorella), fanno pensare a una parodia dotta di quelli che nella considerazione comune passavano per atteggiamenti e costumi popolari.

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