Letteratura italiana

XIII – La Sera Del Dì Di Festa

O Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna. O donna mia,
Già tace ogni sentiero, e pei balconi
Rara traluce la notturna lampa:
Tu dormi, che t’accolse agevol sonno
Nelle tue chete stanze; e non ti morde
Cura nessuna; e già non sai nè pensi
Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
Appare in vista, a salutar m’affaccio,
E l’antica natura onnipossente,
Che mi fece all’affanno. A te la speme
Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro
Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
Questo dì fu solenne: or da’ trastulli
Prendi riposo; e forse ti rimembra
In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
Piacquero a te: non io, non già, ch’io speri,
Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
Quanto a viver mi resti, e qui per terra
Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
In così verde etate! Ahi, per la via
Odo non lunge il solitario canto
Dell’artigian, che riede a tarda notte,
Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
E fieramente mi si stringe il core,
A pensar come tutto al mondo passa,
E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
Il dì festivo, ed al festivo il giorno
Volgar succede, e se ne porta il tempo
Ogni umano accidente. Or dov’è il suono
Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido
De’ nostri avi famosi, e il grande impero
Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio
Che n’andò per la terra e l’oceano?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
Il mondo, e più di lor non si ragiona.
Nella mia prima età, quando s’aspetta
Bramosamente il dì festivo, or poscia
Ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,
Premea le piume; ed alla tarda notte
Un canto che s’udia per li sentieri
Lontanando morire a poco a poco,
Già similmente mi stringeva il core.

Idillio recanatese composto, con tutta probabilità, tra la primavera e i primi di ottobre del 1820. Compare, con il titolo originale de La sera del giorno festivo, prima sul «Nuovo Ricoglitore» milanese del dicembre 1825 insieme con gli altri testi leopardiani – L’infinitoAlla lunaLa vita solitariaIl sogno e il Frammento XXXVII «Odi Melisso…» – poi nell’edizione bolognese dei Versi (Stamperia delle Muse, Bologna, 1826) e in quella fiorentina dei Canti (Piatti, Firenze, 1831). Il titolo attuale, oltre ad alcune varianti al testo, arriva solo con la seconda edizione dei Canti curata dall’autore e dall’amico Antonio Ranieri (Starita, Napoli, 1835).

Metro: endecasillabi sciolti.

Note

Il celebre incipit de La sera del dì di festa rimanda ad un passo di Omero (Iliade, VIII, 555-559) che Leopardi ha già tradotto in un passo del suo Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, del 1818: “Sì come quando graziosi in cielo | rifulgon gli astri intorno della luna, | e l’aere è senza vento, e si discopre | ogni cima de’ monti e ogni selva | ed ogni torre; allor che su nell’alto | tutto quanto l’immenso etra si schiude, | e vedesi ogni stella, e ne gioisce | Il pastor dentro all’alma”.

 Serena: l’aggettivo si riferisce con funzione predicativa a “montagna”.

 O donna mia: incerta – e senza dubbio poco rilevante per il senso complessivo della lirica – l’identificazione del personaggio; possibile che si tratti di una giovane, tale Serafina Basvecchi, figliastra di uno zio del poeta, Vito Leopardi.

 già tace ogni sentiero: immagine questa volta desunta da Virgilio (Eneide, IV, 525).

 Costruzione: “e la notturna lampa [la lucerna da tavolo] traluce rara [fa passare una luce fioca e debole] pei balconi”.

 chete stanze: le stanze sono “chete” nella doppia accezione di “silenziose” e “tranquille”; il contesto in cui ha luogo il canto del poeta contrasta insomma con la sua disperazione intima e personale.

 Il “già” serve da rafforzativo alla negazione, in un passaggio dove anche il verbo (“morde”, v. 8) è connotato espressivamente.

 Costruzione: “io mi affaccio a salutar questo cielo, che sì benigno appare in vista, e [sottointeso: mi affaccio a salutar] l’antica natura onnipossente”.

 Il soggetto sottointeso è “l’antica natura onnipossente”.

 solenne: latinismo che qui indica il giorno festivo contrapposto a quello feriale (o “giorno | volgar” come detto sotto ai vv. 31-32). Probabile il riferimento alla festività di San Vito (15 giugno), patrono di Recanati, anche se vale soprattutto per indicare la felicità altrui contrapposta al senso di esclusione dell’io lirico.

 i sollazzi: ai “trastulli” (v. 17) della donna amata si aggiungono qui i divertimenti di un comune popolano in una giornata di feste: il gioco e il vino.

 succede: dal latino succedĕre, nel senso di “subentrare”, “prendere il posto di”.

 “Accidente” mantiene qui un forte collegamento con l’idea di “caso”, come ad indicare che, per Leopardi, l’intera vita umana è governata da una logica estranea ai desideri e alle volontà dei singoli individui.

 il grido: da intendersi come “voce”, nel senso di fama tramandata nei secoli.

 l’armi, e il fragorio: i due termini “armi” e “fragorio” costituiscono un’endiadi, cioè una figura retorica (dal greco ἓν διὰ δυοῖν, “uno attraverso due”) per cui si esprime un’idea, un concetto o un’immagine con due elementi distinti.

 Si noti che l’accento metrico cade qui su “oceàno”.

 Un passo dello Zibaldone del 20 gennaio 1821 sembra rimandare quasi alla lettera a queste amare ed acute considerazioni: “Osservate ancora che dolor cupo e vivo sperimentavamo noi da fanciulli, terminato un divertimento, passata una giornata di festa ec. Ed è ben naturale che il dolore seguente dovesse corrispondere all’aspettazione, al giubilo precedente: e che il dolore della speranza delusa sia proporzionato alla misura di detta speranza”.

 Espressione classicheggiante e letteraria per “restavo a letto”.

Parafrasi

  1. La notte è mite e serena e senza vento,
  2. e la luce lunare si posa quieta sui tetti e in mezzo
  3. ai giardini, e da lontano rende nitida
  4. ogni montagna. O donna mia, ormai ogni via
  5. del borgo è silenziosa, e la lampada notturna
  6. manda una luce fioca dai balconi:
  7. tu dormi, poiché un sonno rapido e conciliante
  8. ti ha accolto nelle tue stanze silenziose; e nessuna
  9. preoccupazione ti angoscia; e non sai per nulla
  10. né ci pensi alla ferita che m’hai procurato al cuore.
  11. Dormi; io mi affaccio a salutare questo cielo,
  12. che alla vista sembra così benevolo, e la natura
  13. eterna ed onnipossente, che mi ha creato
  14. affinché io soffrissi. [La natura] mi disse: “A te nego
  15. anche la speranza stessa, e i tuoi occhi
  16. non brillino se non per le lacrime.
  17. Questa è stata una giornata di festa; ora tu ti riposi
  18. dai divertimenti; e forse ti ritorna in mente
  19. in sogno a quanti oggi sei piaciuta, e quanti
  20. ti piacquero: certamente non sono io a ricorrere nei tuoi pensieri,
  21. né mi illudo che ciò possa avvenire. Intanto io mi domando
  22. quanto mi resti da vivere, e mi getto, urlo,
  23. e fremo qui nella mia stanza.
  24. Oh giorni tremendi nell’età giovanile! Ahi, per la strada
  25. sento non distante il canto solitario
  26. dell’artigiano, che torna a tarda notte,
  27. dopo i piaceri e i divertimenti, alla sua misera casa;
  28. e il cuore mi si stringe in maniera feroce e dolorosa,
  29. nel pensiero di come al mondo tutto sia transitorio,
  30. e non lascia quasi nessuna traccia di sé. Ecco
  31. è passato anche il giorno di festa, e a questo segue
  32. il giorno ordinario, e trascina con sé tutti gli avvenimenti umani.
  33. Dov’è ora il suono di quei
  34. popoli antichi? Dov’è adesso la voce
  35. che si leva alta dei nostri celebri antenati, e il grande
  36. impero di Roma, e il fragore delle sue armi,
  37. che attraversò terre ed oceani?
  38. Tutto è pace e silenzio, e tutto il mondo
  39. si riposa, né più si ha memoria di loro.
  40. Nella mia età giovanile, quando si aspettava
  41. il giorno festivo con un desiderio febbrile,
  42. dopo che questo era trascorso, io, insonne e sofferente,
  43. restavo disteso a letto; e a notte fonda
  44. un canto che si udiva smorzarsi
  45. allontanandosi a poco a poco per i sentieri,
  46. allo stesso modo di oggi mi soffocava il cuore.

Le tematiche e lo stile dell’idillio

Due sono qui i grandi temi affrontati nella Sera del dì di festa:

  • l’infelicità del poeta e il suo senso di esclusione alle gioie della giovinezza;
  • il distruttivo passare del tempo che annienta ogni opera umana.

Questi due campi di riflessioni, tipici della riflessione leopardiana sull’esistenza, vengono distribuiti nelle tre parti in cui è suddivisibile l’idillio.

Introduzione: il paesaggio notturno (vv. 1-14)

La poesia si apre con la descrizione di un tranquillo paesaggio notturno(vv. 1-4) di stampo classico, che ricorda quelle di poeti greci e latini (per esempio Omero, Virgilio e Ovidio) e Petrarca. Il ritmo dell’incipit è abilmente rallentato dall’uso di congiunzioni e dai due aggettivi che anticipano il sostantivo a cui si riferiscono (“dolce” e “chiara”). Già da questi primi versi emerge un senso di indeterminatezza, che caratterizza tutta la poetica degli Idilli; la suggestività del paesaggio notturno, tipico di gran parte della poesia romantica europea, diventa lo sfondo per la confessione sentimentale del poeta, attraverso un’antitesitra la pace del mondo notturno (vv. 2-4: “e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti | posa la luna, e di lontan rivela | serena ogni montagna. […]”) e il tormento del poeta.

Il lessico utilizzato (v. 10: “quanta piaga m’apristi in mezzo al petto”) è quello della poesia amorosa, poiché Leopardi, descrivendo il sonno di una donna amata, cui il poeta si rivolge con un’apostrofe (v. 4: “O donna mia”) ma che rimane indifferente alle sue sofferenze. La prima parte della poesia si chiude così, in una serie di versi dall’andamento prosastico (vv. 11-14), individuando la causa del male che affligge il poeta: si tratta della “antica natura onnipossente” (v. 13), che ha evidentemente creato Leopardi solo perché soffrisse.

La sofferenza amorosa e la Natura matrigna (vv. 15-33)

La seconda parte della Sera del dì di festa sviluppa il tema della delusione e della sofferenza d’amore, che per il poeta si ricollega direttamente all’intrinseca infelicità imposta dalla Natura alla sua esistenza, escludendolo dalle gioie della vita:

[…] A te la speme
nego, mi disse, anche la speme; e d’altro
non brillino gli occhi tuoi se non di pianto.

Si noti il forte enjambement tra v. 14 e v. 15, utile per evidenziare la negazione (“nego”) della speranza (“speme”) che la Natura impone. Qui la riflessione è interiore e personale, ed è tipica della fase del pessimismo storico, in cui il dolore non accomuna ancora tutti gli uomini. Con una climax ascendente (e cioè con una progressione evidente dei verbi tra i vv. 22-23: “A terra | Mi getto, e grido, e fremo”) il poeta esprime la propria disperazione, che si chiude con la comparsa di un elemento uditivo esterno:

[…] il solitario canto
dell’artigian, che riede a tarda notte,
dopo i sollazzi, al suo povero ostello ;

È uno stimolo sensoriale che induce il poeta, come avviene nell’Infinito, a riflettere sulla caducità delle cose umane , chiudendo così la seconda parte dell’idillio sulla pessimistica riflessione che il nostro mondo è dominato dal caso (“l’accidente” del v. 33)

La conclusione: il paragone con le età antiche e con l’infanzia (vv. 34-46)

La terza sezione della Sera si apre con una tragica considerazione sul potere distruttivo del tempo, che nel suo inesorabile passaggio conduce all’oblio le grandi imprese dell’uomo. La constastazione erompe dal cuore del poeta con una serie di interrogative retoriche di tono drammatico, ulteriormente sottolineate dalla figura retorica dell’enjambement che spezza i vv. 33-37. Ciò che rimane alla fine è solo  “pace e silenzio” (v. 38): i due termini richiamano la situazione iniziale del paesaggio notturno e ricordano a Leopardi un episodio dell’infanzia, collegato alla situazione presente.

Si istituisce così un paragone assai importante per comprendere il messaggio profondo del testo, che Leopardi chiarisce al v. 46). Il “canto” (v. 44) dell’artigiano che, spegnendosi a poco a poco nei sentieri in mezzo alla campagna, svelava al poeta bambino l’insoddisfazione del piacere del giorno festivo (vv. 40-45), stringe ancora il cuore di Leopardi (v. 46): l’unico guadagno per lui è aver preso consapevolezza della amara legge esistenziale che lo condanna. Il tema della rimembranza, tipico della poesia leopardiana, sarà poi ampiamente sviluppato dal Sabato del villaggio (1829).

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