Letteratura italiana

XXIII – CANTO NOTTURNO Dl UN PASTORE ERRANTE DELL’ ASIA

Il Canto notturno viene composto nella natìa Recanati, tra l’ottobre 1829 e i primi giorni di aprile del 1830. Secondo una nota dello Zibaldone (3 ottobre 1828) l’ispirazione giunge a Leopardi dalla lettura di un articolo del barone di Meyendorff (Voyage d’Orenbourg à Boukhara fait en 1820), pubblicato dal «Journal des Savants» nel settembre del 1826, dove si descrive l’abitudine dei pastori nomadi kirghisi di intonare malinconici canti mentre contemplano la luna. Compare poi nell’edizione fiorentina dei Canti (1831).

Metro: Canzone di strofe libere, in endecasillabi e settenari. Oltre ad alcune rime al mezzo, si può notare la ricorrenza della rima in -ale in chiusura di ogni strofe.

Testo

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L’ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s’affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov’ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
E’ la vita mortale.

Nasce l’uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell’esser nato.
Poi che crescendo viene,
L’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell’umano stato:
Altro ufficio più grato
Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perchè dare al sole,
Perchè reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
Perchè da noi si dura?
Intatta luna, tale
E’ lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
E forse del mio dir poco ti cale.

Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,
E perir dalla terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
Il perchè delle cose, e vedi il frutto
Del mattin, della sera,
Del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
Rida la primavera,
A chi giovi l’ardore, e che procacci
Il verno co’ suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate al semplice pastore.
Spesso quand’io ti miro
Star così muta in sul deserto piano,
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l’aria infinita, e quel profondo
Infinito Seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
Smisurata e superba,
E dell’innumerabile famiglia;
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D’ogni celeste, ogni terrena cosa,
Girando senza posa,
Per tornar sempre là donde son mosse;
Uso alcuno, alcun frutto
Indovinar non so. Ma tu per certo,
Giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
Che degli eterni giri,
Che dell’esser mio frale,
Qualche bene o contento
Avrà fors’altri; a me la vita è male.

O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perchè d’affanno
Quasi libera vai;
Ch’ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perchè giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
Tu se’ queta e contenta;
E gran parte dell’anno
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,
E un fastidio m’ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perchè giacendo
A bell’agio, ozioso,
S’appaga ogni animale;
Me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?

Forse s’avess’io l’ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
Mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
E’ funesto a chi nasce il dì natale. 

Note

i sempiterni calli: la scelta dell’aggettivazione insiste (dopo l’invocazione iniziale alla luna) sulla ricorrenza, pressoché eterna, del moto lunare, che in tal senso è ancor più estraneo alle sofferenze del pastore che prende la parola all’apertura del canto.

 prendi a schivoespressione letteraria per mettere subito al centro della riflessione la “noia” dell’esistenza, vera e propria malattia di cui soffre il poeta (e con lui, il pastore nomade).

Vi è qui una chiara memoria letteraria petrarchesca, dalla canzone Ne la stagione che ‘l ciel rapido inchina (Canzoniere, L, vv. 29-38).

 altro mai non ispera: ragionando sull’etimologia latina da spes, -ei, un passo dello Zibaldone del 1 ottobre 1823 spiega il punto di vista leopardiano: “Il primitivo e proprio significato di spes non fu già lo sperare ma l’aspettare indeterminatamente al bene o al male… l’aspettare e l’aspettativa è un’idea che dovette esser tra le prime dinominate, e innanzi allo sperare ec. ch’è una specie dell’aspettare, e un’idea troppo sottile e metafisica ec. ec.”.

Nell’espressione, è sottointesa la domanda: “a che vale” (v. 16). Si noti poi la disposizione a chiasmo dei termini “al pastor la sua vita | la vostra vita a voi?”.

 Vecchierel bianco, infermo: altro rimando petrarchesco, questa volta al celebre Movesi il vecchierel canuto e bianco (Canzoniere, XVI). Il paragone tra la vita e il faticoso cammino di un uomo anziano è anche in una nota dello Zibaldone (17 gennaio 1826): “Che cosa è la vita? Il viaggio di uno zoppo e infermo che con un gravissimo carico in sul dosso per montagne ertissime e luoghi sommamente aspri, faticosi e difficili, alla neve, al gelo, alla pioggia, al vento, all’ardore del sole, cammina senza mai riposarsi dì e notte uno spazio di molte giornate per arrivare a un cotal precipizio o un fosso e quivi inevitabilmente cadere”.

 quando avvampa l’ora: perifrasi per “l’estate”, la stagione più torrida per il pastore.

 è rischio di morte il nascimento: Leopardi qui allude sia alle complicanze del parto che soprattutto alla condanna all’infelicità implicita per lui in ogni venuta al mondo.

 Il tema è sviluppato anche nello Zibaldone (13 agosto 1822): “L’uno de’ principali uffizi de’ buoni genitori nella fanciullezza e nella prima gioventù de’ loro figliuoli, si è quello di consolarli, d’incoraggiarli alla vita; […]. E in verità conviene che il buon padre e la buona madre, studandosi di racconsolare i loro figliuoli, emendino alla meglio, ed alleggeriscano il danno che loro hanno fatto col procrearli”.

 da parentilatinismo per “genitori”.

 si dura: nel verbo al presente, è implicita una sfumatura continuativa, come se il tollerare l’ingiustizia e il dolore della vita sia, nei fatti, una inevitabile legge cosmica.

 Intatta: richiama il “vergine” del v. 37, ma aggiungendovi l’idea del sostanziale disinteresse dell’astro per le questioni umane (come a dire: “non sfiorata nemmeno dai nostri problemi”, in modo analogo al v. 60). Gli attributi scelti qui per la luna sono quelli classicamente attribuiti alla dea Diana.

 Sottointeso: “tu forse intendi” (v. 62).

 smisurata e superba: i due termini, in endiadi, stanno ad indicare sia il rapporto spaziale (il creato è immenso rispetto alla finitezza di un singolo essere umano) che quello gerarchico (il mondo è superbo e quasi sprezzante nei confronti della nostra sorte) tra l’uomo e tutto ciò che lo circonda e lo annichilisce.

 Costruzione vv. 90-98: “Così meco ragiono [rifletto tra me e me]; e indovinar non so [e non so trovare] uso alcuno, alcun frutto [né uno scopo né un beneficio] della stanza smisurata e superba [l’universo infinito] e dell’innumerabile famiglia [tutte le cose viventi]; e indovinar non so il senso [sottointeso dalla frase precedente] di tanto adoprar, di tanti moti d’ogni celeste, d’ogni terrena cosa, per tornar sempre là donde son mosse”

 Costruzione vv. 100-104: “Questo io conosco e sento, che avrà fors’altri qualche bene o contento [forse altri avranno un bene o un premio] degli eterni giri e dell’esser mio frale [dall’eterno ruotare degli astri e dalla fragilità della mia esistenza]; a me la vita è male”. Il tema-chiave del pessimismo leopardiano si trova anche nello Zibaldone (22 aprile 1826): “Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il male; l’ordine e lo stato, le leggi, l’andamento naturale dell’universo non sono altro che male, né diretti ad altro che al male”.

 senza noiail tema della fortuna degli animali, che sarebbero immuni alla “noia” umana, torna in più passi dello Zibaldone, come in una nota del 7 ottobre 1823.

Parafrasi

  1. O luna, che fai nel cielo? Dimmi, che fai,
  2. o silenziosa luna?
  3. Sorgi la sera, e inizi la tua peregrinazione,
  4. osservando a lungo i deserti; e poi cali e ti posi.
  5. Non sei ancora stanca 
  6. di percorrere sempre lo stesso itinerario?
  7. Non ti è ancora venuta a noia, sei ancora desiderosa
  8. di ammirar questi luoghi di esilio?
  9. La vita del pastore
  10. somiglia alla tua.
  11. Si alza appena il cielo si fa chiaro
  12. conduce il suo gregge per il pascoli, e vede
  13. altre greggi, fonti e prati;
  14. poi stanco si riposa verso sera:
  15. non s’attende mai altro dalla vita.
  16. O luna, confessami: per che finalità ha valore
  17. la vita per il pastore, e che ragion d’esser
  18. ha la nostra esistenza per te? Dimmi: dove punta
  19. questa mia esistenza nomade, e dove
  20. invece va il tuo itinerario eterno e sempre uguale?
  21. Un vecchierello dai capelli ormai bianchi, infermo
  22. vestito di stracci e senza scarpe,
  23. che porta sulle spalle un fardello assai pesante,
  24. attraversando valli e montagne,
  25. sassi aguzzi, dune profonde e luoghi impervi
  26. in mezzo al vento, alla tempesta, al sole
  27. che batte e alla stagione invernale
  28. corre affannosamente e ansiosamente spera
  29. supera torrenti e stagni
  30. cade, si rialza, e continuamente si affretta
  31. senza sosta o riposo,
  32. sanguinante e con le vesti lacere; quando infine
  33. arriva là dove la strada
  34. e la gran fatica erano da subito destinate:
  35. un abisso immenso ed agghiacciante,
  36. dove egli, precipitando, dimentica tutto.
  37. purissima luna,
  38. questa è la vita dei mortali.
  39. L’uomo nasce per soffrire,
  40. e la stessa nascita è un rischio di morte.
  41. Prova sofferenza e dolore
  42. come prima cosa; e all’inizio stesso della vita
  43. la madre e il padre
  44. prendono a consolare il figlio per essere venuto al mondo.
  45. Quando questo poi cresce,
  46. l’uno e l’altro lo sostengono, e continuamente
  47. con gesti affettuosi e parole dolci
  48. s’impegnano a fargli coraggio
  49. e a consolarlo della condizione umana:
  50. i genitori nei confronti della loro
  51. prole non compiono altri gesti più graditi.
  52. Ma perché dare al mondo
  53. e mantenere in vita chi poi
  54. è necessario consolare dell’esistenza stessa?
  55. Se la vita è una sventura continua
  56. perché dev’essere subita e tollerata da noi?
  57. O luna non toccata da tali problematiche,
  58. questo è lo stato dei mortali.
  59. Ma tu non sei come noi,
  60. e quindi forse poco ti interessa di ciò che dico.
  61. Tuttavia tu, solitaria, eterna pellegrina
  62. che sei così pensosa, tu forse puoi capire
  63. cosa sia l’esistenza terrena,
  64. il nostro soffrire e il nostro sospirare;
  65. puoi intendere cosa significhi la morte,
  66. lo scolorarsi del nostro volto,
  67. e lo scomparir dalla terra, e abbandonare
  68. ogni consueta ed amata compagnia umana.
  69. E tu certo hai nozione
  70. della causa delle cose, e vedi l’esito proficuo
  71. del mattino, della sera,
  72. e del silenzioso e inarrestabile alternarsi delle giornate.
  73. Tu sicuramente sai per quale causa
  74. lieta rida la primavera,
  75. a chi sai favorevole l’estate, e che vantaggi
  76. abbiano i ghiacci dell’inverno.
  77. Tu mille cose sai, e mille ne scopri,
  78. che sono tenute segrete all’umile pastore.
  79. Spesso, quando ti osservo e ti contemplo
  80. mentre stai così silenziosa sopra il deserto
  81. che, al suo orizzonte, confina col cielo;
  82. oppure mentre mi segui viaggiando
  83. a mano a mano con il mio gregge;
  84. e quando scruto le stelle splendere nel cielo;
  85. dico pensando fra me:
  86. “A che scopo così tante luci?
  87. Qual è il senso dell’universo infinito, e della
  88. grandiosità della volta celeste? Che vuol
  89. dire la solitudine totale dell’uomo? Io che sono?
  90. Così rifletto tra me e me: e non so
  91. trovare uno scopo o un beneficio qualsiasi
  92. dell’universo immenso e smisurato,
  93. di tutte le cose viventi;
  94. né poi mi spiego
  95. il senso di tanta fatica, di tanti andirivieni
  96. di ogni cosa terrena o celeste
  97. che girando ininterrottamente, finisce
  98. là da dove era partita. Ma tu sicuramente
  99. giovane luna immortale, sai la motivazione
  100. di tutto. Questo io so e provo,
  101. che forse ad altri verrà
  102. un bene o un premio
  103. dell’eterno ruotare degli astri,
  104. della mia fragilità; per me, la vita è dolore.
  105. O gregge mio che ti accucci, beato te,
  106. che – suppongo – non conosci la tua miseria!
  107. Come ti invidio!
  108. Non solo perché vai
  109. libero dalle preoccupazioni umane;
  110. tanto che dimentichi immediatamente
  111. ogni sofferenza, dolore o timore di morte
  112. ma soprattutto perché non provi mai la sensazione
  113. del nulla. Quando siedi all’ombra, sull’erba,
  114. sei pacifica e felice;
  115. e vivi in questo stato senza noia
  116. per buona parte dell’anno.
  117. E pure io siedo in un prato ombroso,
  118. ma un’insoddisfazione latente mi ingombra
  119. il pensiero, e uno sprone quasi mi pungola
  120. così che, benché seduto, io sono ben distante
  121. dal trovar un luogo di pace.
  122. E tuttavia non desidero alcunché
  123. e non ho per ora motivo di dolermi.
  124. Non so dire con precisione
  125. quanto o per qual motivo tu sia felice; ma sei fortunata.
  126. Ed io provo ancor poco piacere,
  127. o gregge mio, né mi lamento solo di questo.
  128. Se tu sapessi parlare, io ti chiederei:
  129. “Dimmi, perché
  130. ogni animale è contento
  131. giacendo nell’agio e nell’ozio mentre,
  132. se io mi riposo, la noia mi assale?”
  133. Forse se io avessi le ali
  134. per volare sopra le nuvole,
  135. contare a una a una le stelle
  136. o se potessi errare di cresta in cresta
  137. sarei più felice. o dolce mio gregge,
  138. sarei più sereno, o candida luna.
  139. O probabilmente il mio ragionamento
  140. si allontana dalla verità, prestando attenzione alla sorte altrui. 
  141. Forse – in quale che sia lo stato in cui si nasce,
  142. dalla stalla alla culla – per chi viene
  143. al mondo è funesto il giorno della nascita.

Canto notturno di un pastore errante dell’Asia è forse il punto più alto nella storia delle forme poetiche leopardiane. La canzone libera appare come la struttura migliore per una poesia più filosofica e speculativa. Il poeta trae ispirazione per il componimento dalla lettura di un resoconto di un viaggio presso i Kirghisi, una popolazione dell’Asia centrale, in cui si raccontava che alcuni pastori del luogo intonassero canti rivolgendosi alla luna. In questa poesia Leopardi sembra ormai essersi aperto al Romanticismo: esotismo, lontananza, la situazione notturna sono alcuni dei tipici aspetti della poesia romantica. Ma la lingua e l’immaginario rimangono sempre gli stessi, come l’invocazione alla luna, come nell’idillio Alla lunaICanto notturno è diviso in sei stanze, molto diverse l’una dall’altra. Nella prima stanza il pastore si rivolge alla luna silenziosa, confrontando la sua condizione con quella dell’astro. Il pastore si definisce “vecchierel bianco”, un chiaro riferimento a un sonetto di Petrarca(Movesi il vecchierel). Il confronto sproporzionato tra essere umano e astro celeste si ritrova anche in altri Canti pisano-recanatesi, come nelle Ricordanze. Il pastore si interroga poi sulla sua esistenza, confrontando la sua situazione con quella del suo gregge, domandandosi come mai gli animali non sentano il tedio della vita. Per lui l’esistenza è male.

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