Letteratura italiana

Il Neorealismo

Composita e complessa dinamica culturale, che ha caratterizzato il cinema italiano dal dopoguerra (1945-46) sino ai primi anni Cinquanta (1953-1956), il N. è stato, sotto molti aspetti, la prima delle ‘nuove ondate’ che, innovando gli aspetti formali e narrativi del cinema, hanno puntato alla sua modernizzazione, sottraendolo alle formule realizzative, ai modi di produzione, ai canoni spettacolari, alle consuetudini linguistiche tradizionali. A livello internazionale, quando già si era conclusa la forza propulsiva del rinnovamento italiano, fecero seguito, nel corso degli anni Cinquanta, il Free Cinema inglese (1956), il cinema dell’ottobre polacco (1958), la Nouvelle vague francese (1959) e, negli anni Sessanta, l’una dopo l’altra o l’una accanto all’altra, le vagues del cinema argentino, giapponese, tedesco, cecoslovacco, brasiliano (e più in generale latinoamericano), ungherese, africano ecc., sino a quelle che si affacciarono negli anni Settanta, come la cilena, quando un ‘nuovo rinnovamento’ (quello del cinema postmoderno) prese avvio, per affermarsi negli anni Ottanta e oltre, determinato dalla grande mutazione mediologica e dagli scambi intermediologici prodotti dalle nuove tecnologie e dai nuovi canali di diffusione degli strumenti audiovisivi. Data la distanza di tali dinamiche, risulta naturale che le più tardive, quelle degli anni Sessanta, a partire dalla Nouvelle vague francese, abbiano avuto nei confronti delle più precoci ‒ come appunto il N. italiano ‒ un ambiguo rapporto di mimesi e di superamento, di dipendenza e di contrasto, di ammirazione e di avversione.

Premessa al Neorealismo, inteso soprattutto come variante del realismo ‒ in primo luogo dalla critica neorealista, che si trovò nella difficile situazione di dover fare storiografia su un fenomeno coevo ‒, fu a lungo considerato quel percorso che, partendo dal realismo primitivo del suburbio portuale di Sperduti nel buio (1914) di Nino Martoglio e dei ‘bassi’ di Assunta Spina (1915) di Gustavo Serena e Francesca Bertini, si immerse come un fiume carsico nel tunnel degli anni Venti, riaffiorò con Sole (1929) di Alessandro Blasetti, riemerse ostensibilmente in 1860 (1933) e magari anche in taluni tratti di Vecchia guardia (1935), entrambi ancora di Blasetti, ebbe specifiche premesse nei volti degli attori non professionisti di La nave bianca (1941) di Roberto Rossellini (nonché in quelli degli altri due titoli della rosselliniana ‘trilogia fascista’, Un pilota ritorna, 1942, e L’uomo dalla croce, 1943) e negli ambienti popolari di Fari nella nebbia (1942) di Gianni Franciolini. Mentre i più audaci fra gli storici del fenomeno citarono anche l’eco popolare di taluni prodotti di ‘genere’ come Avanti c’è posto… (1942) e Campo de’ Fiori (1943) di Mario Bonnard e perfino L’ultima carrozzella (1943) di Mario Mattoli, nemico per eccellenza dei preneorealisti della rivista “Cinema”. Il tutto, per comune consenso, ebbe l’ultimo episodio, prima dell’event rappresentato da Roma città aperta (1945) di Rossellini, nella triade Quattro passi fra le nuvole (1942) di Blasetti, Ossessione (1943) di Luchino Visconti e I bambini ci guardano (1944) di Vittorio De Sica, registi che, ciascuno con il proprio stile ‒ e tutti in qualche modo già preneorealisti ‒, azzerarono l’immaginario del cinema italiano sotto il fascismo.

Questo percorso preneorealista, pur fondandosi sul giusto presupposto che l”ansia di realtà‘ (ora per occultarla e negarla, ora per sussumerla e denunciarla fenomenologicamente) sia stata la caratteristica costante del cinema italiano, da Filoteo Alberini a Silvio Soldini, è solo parzialmente fondato. Almeno nel senso che i suoi richiami (le diverse tappe del percorso, i film che lo caratterizzarono) possono anche essere corretti, ma sono decisamente insufficienti a spiegare la modernità del N., nonché le sue caratteristiche di prima fra le vagues mondiali che puntarono al superamento del cinema ‘classico’. E soprattutto nel senso che la visione del fenomeno come punto di arrivo di una ricerca pluriennale finirebbe per circoscriverlo alla maxicategoria del ‘realismo’, all’interno della quale invece solo in parte esso si può collocare, mentre risultano fuori molte componenti essenziali e specifiche, quali la ricca e composita elaborazione zavattiniana, la problematica mediologica che il N. ha affrontato e la generale mise en question estetico-sociale che esso, esplicitamente e implicitamente, ha determinato avendo, non a caso, riscontro in una letteratura (nel senso di narrativa) e in una pittura neorealiste che, pur con un impatto minore rispetto a quello del N. cinematografico, gli furono tuttavia coeve.In questo senso, per completare il percorso preneorealistico, è importante riflettere su alcuni scritti apparsi durante gli anni Trenta e sino agli albori del decennio successivo su pubblicazioni specialistiche e non (“Architrave”, “Quadrivio”, “L’Italia letteraria”, “Novecento”, “Omnibus” e “Roma fascista”), espressione, sovente, di personalità che non necessariamente si ritrovavano nella vague neorealista; ma anche su alcune istanze emerse nei secondi anni Trenta durante gli incontri presso i Cineguf, talora riportate sui giornali dei GUF, e sugli articoli pubblicati dalla rivista “Cinema”, anni prima che della testata s’impadronisse, coperto dal nome e dalla firma direttoriale di Vittorio Mussolini, il gruppo comunista combattivo e iconoclasta degli anni 1940-1943. Nell’articolo Sorprendere la realtà apparso su “Cinema” (10 ott. 1936, 7, pp. 257-60), Leo Longanesi, anticipando Cesare Zavattini, propugna un ‘cinema del pedinamento’, che sappia “cogliere in fallo situazioni che, riportate sullo schermo, rivelano gli infiniti segreti della nostra società”, e che auspichi “un documentario sulla vita degli anonimi”, con scene reali riprese da un operatore che giri per le strade con la cinepresa a cogliere verità, “verità che nessun attore potrebbe recitare”, fatte costume dall’abitudine e dalla pratica; mentre nell’articolo L’obiettivo nomade (in “Cinema”, 25 sett. 1939, 78, pp. 195-96) Domenico Purificato si augura un modello di “cinematografia che vorremmo chiamare nomade” ‒ quale “antitesi all’altra [che] chiameremo sedentaria […] anemica cinematografia che non varca mai la soglia del teatro di posa”, perpetrando “falsi in atto pubblico” ‒ ovvero un cinema che “va in cerca di scenari che solo la natura può apprestare nel debito modo”, muovendosi “alla ricerca di naturali elementi che diano maturità all’atmosfera, verosimiglianza agli elementi, carattere alle vicende”. In altre parole, fin dagli anni Trenta vi fu un’istanza, del tutto preideologica e abbondantemente prepolitica, che portò al rifiuto del cinema delle ‘città di cartapesta’, del manierismo attoriale e dell’anonimia paesaggistica, aspirando a “un vero ancora da fare, un vero che vedremo, un vero che verrà” ed esorcizzando il “falso che vediamo, e che morirà” (L. Longanesi, Il gioiello convesso ‒ Progetto per un film) in “Cinema”, 10 sett. 1936, 5, p. 171).

Tale complessa e composita istanza venne successivamente irrobustita, nel periodo 1941-1943, dall’esplicito auspicio di un ‘paesaggio italiano’ che accomunò note critiche di Giuseppe De Santis (che per questo apprezzò Piccolo mondo antico, 1941, di Mario Soldati), i progetti di Michelangelo Antonioni (Per un film sul fiume Po, in “Cinema”, 25 apr. 1939, 68, pp. 255-57, che prelude alle riprese di Gente del Po, 1943) e le lodi al cinema blasettiano (l”ispirazione più autentica’ di 1860, la ‘Maremma’ di Sole, l”agreste semplicità’ di Terra madre, 1931, l”impeto popolaresco’ di Palio, 1932). Mentre il diverso, ma concomitante, apprezzamento per il piglio documentaristico di Uomini sul fondo (1941) di Francesco De Robertis e per la scrittura filmica (ma ancor prima per ‘il senso di eticità’) di La peccatrice (1940) di Amleto Palermi, fu letto, per es. da U. Casiraghi e G. Viazzi, come il sintomo di un verismo italiano da contrapporre, al realismo tedesco e francese e al naturismo nordico. A rafforzare le basi di una nuova cinematografia vi furono, da un lato, i ponderati richiami di Mario Alicata e Giuseppe De Santis, sempre su “Cinema” (10 ott. 1941, 127, pp. 216-17, e 25 nov. 1941, 130), a Giovanni Verga e a “un’arte rivoluzionaria ispirata ad una umanità che soffre e spera” testimoniata da una cinepresa che segue “nelle strade, nei campi, nelle fabbriche del nostro paese […] il passo lento e stanco dell’operaio che torna alla sua casa”, tendenza ‒ come avrebbe chiarito anni dopo Pietro Ingrao, che del gruppo fece parte ‒ che già corrispondeva all’adozione di un cifrato linguaggio rivoluzionario. Dall’altro vi fu la trasformazione del ‘gruppo’ in una fucina che, attorno al nome di Visconti e sventolando la bandiera del verghismo, tentò di realizzare dapprima I Malavoglia (di cui Visconti fece scrivere una parafrasi a Massimo Mida), poi Jeli il pastore (di cui il regista acquistò i diritti), quindi L’amante di Gramigna (che, con un ‘basta con banditi!’ burocraticamente scritto sulla copertina del copione, la censura preventiva fascista respinse), finendo poi ‒ dopo avere accarezzato progetti anche su Il grande Meaulnes di A. Fournier, Billy Budd di H. Melville, Disordine e dolore precoce di Th. Mann e Adrienne Mesurat di J. Green ‒ per ripiegare su una rilettura di The postman always rings twice di J. Cain, intitolata Ossessione.

La rivistaCinema” e il gruppo di giovani in fermento che la animarono costituirono indubbiamente il maggior centro propulsivo del futuro Neorealismo. Da quel gruppo e dai suoi sodali uscirono molti registi (Visconti e De Santis, ma anche Antonio Pietrangeli, Carlo Lizzani, Gianni Puccini, Antonioni, Basilio Franchina, Guido Guerrasio, Mida ecc.) e una buona parte della generazione di critici che operarono poi nell’immediato dopoguerra. Ma questi non furono gli unici. Nel 1941 Alberto Lattuada, per es., a Milano realizzò la sua vera ‘opera prima’: che non fu il lungometraggio Giacomo l’idealista (1943), tratto da E. De Marchi, che lo avrebbe reso di lì a poco regista, ma un bellissimo albo fotografico dal titolo Occhio quadrato, che il censore fascista lasciò passare, nonostante la “povera gente e [i] muri scrostati”, solo dopo avere saputo della bassa tiratura. Il primo Lattuada, fotografo e cineasta, non fu mai amato dai recensori di “Cinema”, che anzi gli rimproverarono, proprio per Occhio quadrato, ‘l’ottocentesco sguardo’ e ‘l’origine letteraria’.

Ma, a parte gli eccessi stroncatori che caratterizzarono De Santis e tutto il gruppo, soprattutto nei confronti degli ‘estranei’ al gruppo stesso, quella del milanese Occhio quadrato fu invece un’esperienza di grande interesse, sia per il tipo di ‘sguardo’ che portò Lattuada a indirizzare il proprio obiettivo su realtà, umane e sociali, periferiche e degradate, elaborando, nella prefazione, una sorta di etica dello sguardo, sia per l’insistenza a “tener sempre vivo il rapporto dell’uomo con le cose”, per l’invito ad “abbandonare […] il lavoro della spietata analisi e delle troppo pedantesche ricerche di stile” e per l’insistita “presenza dell’uomo”. Posizioni che sembrano preludere a quelle del ‘cinema antropomorfico’ viscontiano (“Cinema”, 25 sett.-25 ott. 1943, 173-174).

Ancora più significativa fu, nell’alveo preneorealista e neorealista, la particolarissima componente dello ‘zavattinismo‘, ovvero delle posizioni assunte da Zavattini, che ‒ tra la fine degli anni Trenta e la fine degli anni Settanta ‒ propose, discusse, propagandò e difese la deontologia di un cinema ‘utile all’uomo’ e per questo sottratto alle leggi del mercato, ai condizionamenti dell’industria, alla rigidità dei ruoli, alla sclerosi delle formule. A parte il soggetto di Totò il buono (mutatis mutandis, quello del futuro Miracolo a Milano, 1951, uno dei capolavori della coppia De Sica-Zavattini) che uscì sulla rivista “Cinema” (25 sett. 1940, 102), le prime teorizzazioni zavattiniane risalgono alla metà degli anni Trenta, quando lo sceneggiatore ‒ pur non affermando ancora, come avrebbe fatto nel dopoguerra, che “le figure dello sceneggiatore e del soggettista sarebbero dovute scomparire” ‒ a proposito della comicità, a suo parere “una comicità sottile, che dà nell’astratto e nel lirico”, deplorò “l’ossessione della trama […] l’ancora di salvezza dei film brutti“, auspicando un “film comico moderno […] privo di trama narrativa, dialogata, cronologica, consequenziale” (R. Masto, Colloquio con Zavattini. I dolori di un giovane soggettista, in “Cinema”, 25 ag. 1936, 4, pp. 152-53); pensando poi a un film, Il mio paese, privo di trama e spettacolo, con la sola idea di “cinquanta o cento ragazzi […] padroni di un paese di peccatori e di artritici”; oppure a “un film sulle donne di servizio”, realizzato in modo da “approfittare del loro angolo visuale per vedere dentro alla nostra borghesia” (C. Zavattini, Quadernetto di note, in “Cinema”, 25 marzo 1940, 90, p. 172). Già prossimo alla poetica del pedinamento, dello spettacolo che coincida con la realtà, del ‘film lampo’ che riproduca “un fatto di cronaca nei luoghi dove è realmente avvenuto” e interpreti “coloro stessi che ne sono stati i principali protagonisti”, come scrisse nel 1952, Zavattini auspicò, fin dal 1940, di “poter tornare all’uomo come all’essere tutto spettacolo […] piazzando la macchina da presa in una strada, in una camera” (I sogni migliori, in “Cinema”, 25 aprile 1940, 92, pp. 252-53).

Per fortuna a dare vita al Neorealismo non furono soltanto teorie ed enunciazioni poetiche. Proprio Zavattini, che teorizzò ‒ fino agli anni Settanta ‒ la morte del soggetto e la fine del cinema sceneggiato, partecipò con finissimo lavoro di sceneggiature alla stesura di due film come Quattro passi fra le nuvole di Blasetti, e I bambini ci guardano di De Sica; il primo, aprendosi e chiudendosi sul grigiore da incubo di un’ordinaria vita familiare e racchiudendo come un sogno sospeso la ‘favola’ di un virtuale idillio agreste, e il secondo, introducendo nella secca radiografia di un gruppo familiare piccolo-borghese la duplice turbativa dell’adulterio (della moglie) e del suicidio (del marito tradito) e la conseguente precoce educazione al dolore e alla solitudine del figlioletto della coppia (Pricò), costituirono una radicale svolta rispetto all’immaginario cinematografico del cinema sotto il fascismo, dove la famiglia era vista come la cellula base dell’unità e dell’ordine esistenziali e sociali. Mentre il viscontiano Ossessione portò ancora più in là il discorso, delineando la famiglia come il luogo della subalternità e della frustrazione femminile, nonché della irrealizzabilità del desiderio e dell’impulso vitale, delineando, come sottolineato da Pietrangeli, tutta un’umanità spoglia, scarna, avida, sensuale e accanita fatta così dalla quotidiana lotta per l’esistenza e per la soddisfazione di istinti irrefrenabili, in un torbido succedersi di eventi dove coscienze elementari palpitano di una loro dolorosa verità.

Quattro passi tra le nuvole, I bambini ci guardano e Ossessione negano più di quanto affermano e preludono al N., nella misura in cui appaiono come un ‘cartello dei no’ al cinema italiano che li aveva preceduti e li attorniava.

Roma città aperta rappresentò il ’25 aprile’ di questo processo di liberazione e di rinnovamento che, al di là del cinema, fece leva sull’unità antifascista (che vide molti intellettuali, fra cui moltissimi del gruppo di “Cinema”, finire nelle prigioni della Gestapo o nei GAP e sulle montagne partigiane), sulle speranze di una palingenesi sociopolitica (per cui il cinema italiano del dopoguerra ha forti connotazioni anticonservatrici, quando non apertamente di sinistra), sulla necessità, sottolineata da Elio Vittorini nell’editoriale del primo numero di “Il Politecnico”, di un’arte e una cultura che non si fossero limitate a consolare delle sofferenze, ma avessero contribuito a eliminarle (ovvero di ‘un’etica dell’estetica’‒ perché questo fu soprattutto il N. ‒ per cui il fine dell’arte non è la “maraviglia” ma lo zavattiniano “conoscere per provvedere” o il rosselliniano “realismo” che è “la forma artistica della verità […] il film [realistico inteso come quello] che pone e si pone dei problemi” o il desichiano “rintracciare il drammatico nelle situazioni quotidiane”).

La definizione Neorealismo ha origini controverse. Il termine, per la prima volta adottato da Arnaldo Bocelli, fu applicato all’antinovecentismo e all’antirondismo di Gli indifferenti (1929) di A. Moravia e di Gente di Aspromonte (1931) di C. Alvaro (nonché successivamente ai primi romanzi di F. Jovine, C. Bernari e R. Bilenchi); fu quasi contemporaneamente ripreso da Umberto Barbaro, che lo usò anche in una sua Prefazione a Bulgakov (1931) e lo riusò, anni dopo, a proposito di Quai des brumes (1938; Il porto delle nebbie) di Marcel Carné, riferendolo al cinema francese degli anni Trenta. Probabilmente pensando al cinema francese lo adottò nel 1943 Mario Serandrei, scrivendo di Ossessione a Visconti; mentre, parlando della scuola documentaristica inglese e in particolare di John Grierson, lo aveva utilizzato, sin dal 1937, il brasiliano Alberto Cavalcanti. Riutilizzato dal 1947-48 dai francesi (André Bazin, Georges Sadoul, Felix Morlion), esso divenne per antonomasia l’etichetta non solo della dinamica postbellica del cinema italiano, ma anche della evidenza ‘realistica’ dell’architettura, della pittura, della poesia e della narrativa coeve.

Quanto alla sostanza dell’estetica neorealista, essa fu caratterizzata da una feconda pluralità di poetiche individuali, legate dal comune sentimento antifascista e rese solidali dall’esplicito impegno morale a fare un cinema utile all’uomo, dall’esigenza di conoscere, e descrivere, il reale per modificarlo. Ma esistono anche, e furono comunque da molti adottati, alcuni topoi più specificamente cinematografici: il rifiuto del teatro di posa e la scelta prevalente degli ambienti naturali, esterni e interni; l’opzione della quotidianità come il terreno dove individuare personaggi ed eventi; l’accantonamento della lingua ‘radiofonica’ e la scelta di un parlato naturale, a volte dialettale, mai da doppiaggio; la preferenza per i volti anonimi, spesso per attori non professionali (con l’eccezione dovuta a De Santis), sempre per una recitazione non teatrale; il relativo disinteresse per un cinema ‘letterario’ (anche se fonti di La terra trema e di Ladri di biciclette, entrambi del 1948, sono due romanzi, rispettivamente di G. Verga e di L. Bartolini) e sceneggiato in maniera ferrea (benché le sceneggiature zavattiniane fossero dettagliatissime); la particolare attenzione alle tematiche contemporanee, alle problematiche dell’hic et nunc, per cui anche una vicenda apparentemente ambientata in un allegorico tempo sospeso, come quella viscontiana (e verghiana) dei Valastro, si rivela in realtà collocata proprio nel 1947-48 con i muri di Aci Trezza ancora pieni di stinte scritte fasciste ma anche di segni e simboli delle campagne elettorali che si erano svolte nel 1947; una netta preferenza per i personaggi degli umiliati e offesi, degli sfruttati ed emarginati, dei poveri e vilipesi, anche quando non si è al cospetto di una visione classista del popolo.

L’opera riconosciuta come iniziatrice della corrente neorealista resta Roma città aperta, con Aldo Fabrizi e Anna Magnani, dove convivono il nuovo sguardo sulla realtà e i residui sceneggiatoriali del passato, saldati dall’afflato epico di una sentita evocazione della Resistenza antitedesca che, specie nella seconda parte del film, scabra e convulsa al tempo stesso, appare totalmente depurata di elementi fittizi, raggiungendo vertici di intenso realismo drammaturgico. Al capolavoro di Rossellini, sempre a sfondo politico, si affiancarono nello stesso anno film di montaggio e di attualità sulla Resistenza e la caduta del fascismo, come Giorni di gloria (1945) di Serandrei, cui collaborarono De Santis, Marcello Pagliero e Visconti e, in una sorta di collateralismo minore, caratterizzato da alcune componenti neorealistiche ‒ ora nello sguardo, ora nell’ambientazione popolare, ora nell’autenticità degli sfondi, ora nelle cadenze vernacolari, ora nell’ansia di liberazione ‒, Abbasso la miseria! (1945) di Gennaro Righelli, avventure di un trafficante nella borsa nera dal cuore tenero e dalla moglie volitiva (Anna Magnani). Più ricco il bilancio neorealista del 1946 con film come O sole mio di Giacomo Gentilomo, che rievoca le quattro giornate della ribellione antitedesca di Napoli; Paisà, altro capolavoro neorealista di Rossellini, che racchiude sei episodi sul passaggio al fronte e la stagione finale della guerra, dal più riflessivo, quello emiliano (tre cappellani militari, un ebreo, un protestante e un cattolico in un convento francescano) al più intensamente drammatico, quello padano (partigiani e soldati americani paracadutati lottano insieme contro i tedeschi); Sciuscià, storia di due bambini abbandonati, della loro sopravvivenza come lustrascarpe, della loro incantata amicizia per un cavallo, della loro precoce cognizione del dolore e della morte in un carcere minorile, che attesta la straordinaria sensibilità dell’autore, De Sica, e la rara consonanza del suo sceneggiatore, Zavattini. Mentre emersero altri autori come Aldo Vergano di Il sole sorge ancora, una rievocazione della Resistenza densa di memorie blasettiane, Lattuada di Il bandito, corposo racconto drammatico incentrato sul reducismo. Per non dire, in ambito del sopra citato collateralismo neorealistico, di film come Un giorno nella vita di Blasetti, che vede protagonisti soldati partigiani e tedeschi in un convento di clausura, le cui suore finiranno tutte fucilate e che segnò la volonterosa quanto esterna adesione del regista al movimento, e di Roma città libera (1946) di Pagliero, surreale incontro fra un ladro buono e un giovane inquieto sullo sfondo di una Roma neorealista. Ancora più ricca la cinematografia appartenente a questa corrente degli anni seguenti, durante i quali uscirono film come Vivere in pace (1947) di Luigi Zampa, apprezzabile bozzetto paesano, ora comico-grottesco ora melodrammatico, su due americani e un tedesco nascosti nella campagna romana, che trionfò sui mercati stranieri, specie negli Stati Uniti, e fu considerato un’emblematica espressione del Neorealismo. E si realizzarono capolavori come Germania anno zero (1948), opera nella quale attraverso il personaggio di Edmund, che dopo avere ucciso il padre ammalato, e dunque rimasto inutile bocca da sfamare, si uccide come per gioco precipitando dall’alto delle rovine di un palazzo bombardato, Rossellini radiografa, fra le macerie reali della capitale del Terzo Reich, le macerie morali di un mondo in cui gli uomini hanno abbandonato un Dio che li ha abbandonati. Vi furono inoltre esordi di rilievo come Caccia tragica (1947), primo episodio della particolarissima cinematografia neorealista di De Santis che connota di epica popolaresca, di tonalità forti e dense, di miti e riti collettivistici, l’uso assai elaborato di una cinepresa ‘hollywoodiana’ che vuole narrare il popolo come visto dal popolo. Mentre è un reduce il protagonista del secondo film di Pietro Germi Gioventù perduta (1948), ambientato nella pineta di Tombolo, fra G-Men, prostitute e contrabbandieri; e Senza pietà (realizzato nel 1947, ma uscito nel 1948) di Lattuada continua a oscillare fra “raffinato calligrafismo” ed “esasperato realismo” (Castello 1956). Oscillarono invece verso la commedia il populista L’onorevole Angelina (1947) e il caustico Anni difficili (1948), entrambi di Zampa, nonché Sotto il sole di Roma (1948) di Renato Castellani, storia di una redenzione su uno sfondo tragico temperato dall’ironia e dal sorriso. L’anno dell’acme neorealista fu proprio il 1948, se non altro perché fu l’anno di due capolavori assoluti come La terra trema, in cui Visconti rilesse con sensibilità contemporanea, sublimò in apologo esemplare, stilizzò attraverso forme neorealiste (dialetto, sfondi naturali, attori non professionisti, riprese nei luoghi autentici, sceneggiatura improvvisata sul campo, modi di produzione documentaristici ecc.) il mondo di I Malavoglia e del ‘negozio di lupini’ di Verga, nel film divenuti i Valastro, che cercano di liberarsi dai ‘padroni’ e imparano, a proprie spese, la differenza fra (la possibile) rivolta individuale contro l’ingiustizia e (l’impossibile) rivoluzione sociale; e Ladri di biciclette, dove un De Sica straordinario, basandosi su una sceneggiatura zavattiniana dai meccanismi perfetti, segue con la sua cinepresa la disperata e affannosa ricerca di una bicicletta rubata a un disoccupato: consapevole del fatto che solo ritrovandola potrà mantenere il lavoro appena trovato, egli con il figlioletto percorre la città, fra catapecchie periferiche e mense di beneficenza, case di tolleranza e quartieri suburbani, muri scrostati e pizzerie popolari, in una sorta di tacita guerra tra poveri che, nel grandioso finale, si risolve con il disperato tentativo dell’uomo di rubarne una a sua volta, fatto che suscita dapprima l’ira della folla per poi indurre una sincera solidarietà commossa non solo tra padre e figlio ma anche nella stessa gente che finisce per perdonarlo. Ma a parte queste due opere magistrali, tra i massimi capolavori del cinema di tutti tempi, il 1948 fu anche l’anno in cui esordì ottimamente Luigi Comencini con Proibito rubare, ambientato nella Napoli dei ‘bassi’ e degli scugnizzi, con un pizzico di ottimismo ma anche con un severo sguardo realistico. L’anno successivo uscì invece Riso amaro di De Santis ‒ sesso e ballo, maternità e sfruttamento, canto e protesta, il ‘buono’ destinato ad avere l’amore e il ‘cattivo’ destinato alla mala morte, il tutto tra le mondine della Padania con riprese di virtuosistica bellezza paesaggistica e un esemplare montaggio ritmico ‒ che si segnalò come uno dei maggiori successi stagionali e comunque, eccezione alla regola, come N. ad alto incasso. Quanto agli altri titoli si registrarono ancora alcuni ‘collateralismi’, come in Molti sogni per le strade (1948) di Mario Camerini (un disoccupato ruba un’automobile e rischia la prigione, ma alla fine tutto si aggiusta) o in quella sorta di ben costruito ‘western’ sulla mafia che è In nome della legge (1949) di Germi, in realtà più memore del grande regista statunitense John Ford che di Rossellini.

Emarginato dallo scarso successo dei suoi pur maggiori film, colpito dalla fine dell’unità antifascista (1947-48) che era stata il suo retroterra, deplorato dagli ambienti centristi e conservatori dominanti, boicottato da banche e da distributori, interpretato dal mondo cattolico più aperto in chiave meramente solidaristica verso umiliati e offesi, privo di un proprio autonomo progetto di politica cinematografica, lontano dal disegno di ricostruzione di un’industria cinematografica nazionale che stette dietro la legge del 1949, reso sospetto dalle non poche militanze a sinistra dei suoi esponenti e dalla stessa tutela parlamentare e politica del Partito comunista e del Partito socialista, il N. ‒ dopo le due prime stagioni ‘libere’ (1945-46) ‒ visse come in stato d’assedio sulle ‘sortite’ dei singoli, le eccezionali imprese individuali (per es. le vicende produttive di La terra trema di Visconti), le aggregazioni produttive di emergenza (l’ANPI, l’Associazione nazionale Partigiani d’Italia, che produsse Caccia tragica di De Santis o la Cooperativa spettatori produttori cinematografici che produrrà Achtung! Banditi!, 1951, di Lizzani) e nel 1948-49 finì già la sua forza propulsiva. Anche se, almeno, sino all’episodio del funeralino di L’oro di Napoli (1954) di De Sica, si annoverano ancora alcuni titoli di rilievo: nel 1949, il N. cattolico di Cielo sulla palude di Augusto Genina e il N. comico di Totò cerca casa di Mario Monicelli e Steno; nel 1950 il N. bucolico dell’ultimo episodio della ‘trilogia della terra’ di De Santis, Non c’è pace tra gli ulivi, il N. evasivo di È primavera… di Castellani, il N. sentimentale di Una domenica d’agosto di Luciano Emmer, il N. teatrale di Napoli milionaria di Eduardo De Filippo, mentre con Stromboli Rossellini (che realizzò sempre nel 1950 Francesco, giullare di Dio e successivamente l’intenso Europa ’51, 1952) volle sempre più allontanarsi in una coerente scelta di depurato spiritualismo; e ancora il N. itinerante di Il cammino della speranza, tra i migliori di Germi nel periodo, il N. favoloso di Miracolo a Milano di De Sica. Sempre nel 1950 esordì con Cronaca di un amore ‒ dopo alcuni bellissimi cortometraggi di esemplare N. documentaristico ‒ il ‘N. dell’anima’ di M. Antonioni, e lo sceneggiatore neorealista Federico Fellini firmò la sua prima regia con Luci del varietà, codiretto con Lattuada. Nel 1951 vanno ricordati il N. resistenziale di Achtung! Banditi! dell’esordiente Lizzani, il N. autocritico di Bellissima di Visconti, mentre Monicelli e Steno, con Guardie e ladri, aggiunsero un ulteriore capitolo al N. comico.

L’anno successivo fu caratterizzato dal N. ‘rosa’ di Due soldi di speranza di Castellani (che aprì la strada, ideologicamente, al Comencini di Pane, amore e fantasia, 1953, e di Pane, amore e gelosia, 1954, dove lo sguardo neorealista esiste, ma è come rovesciato), l’ottimo Processo alla città di Zampa, il N. esemplare di Umberto D. della coppia De Sica-Zavattini, che suscitò la reazione sdegnata dell’allora sottosegretario democristiano G. Andreotti, mentre De Santis ricostruì neorealisticamente in Roma, ore 11 una vicenda di cronaca.

Pochissimi titoli nel successivo biennio 1953-54: del 1953 è il N. giudiziario del poco riuscito Ai margini della metropoli di Lizzani, il N. divistico di Siamo donne di Franciolini, Alfredo Guarini, Rossellini, Visconti e Zampa, su soggetto di Zavattini, mentre un altro episodio di N. esemplare si ebbe con L’amore in città, grande iniziativa zavattiniana con i registi Antonioni, Fellini, Lizzani, Lattuada, Francesco Maselli e Dino Risi, che possedette tutto il rigore di un indiretto intervento teorico sulla poetica neorealista.

Nel 1954 uscirono invece Cronache di poveri amanti di Lizzani, che cercò di dare ‘visibilità’ cinematograficamente neorealista alla pagine del romanzo di V. Pratolini, il già citato L’oro di Napoli, Senso di Visconti, Viaggio in Italia di Rossellini (che successivamente realizzò La paura, 1955), La strada di Fellini, Giulietta e Romeo di Castellani, La romana di Zampa, che attestano tutti irrevocabilmente la radicale diaspora neorealistica.Come si è visto, questi ultimi ‘sprazzi’ di N. resero possibile, ciascuno e tutti, un’ulteriore aggettivazione, una specificazione aggiuntiva alla generica etichetta di N., proprio perché la forza propulsiva del movimento, dopo le primissime stagioni neorealiste, si andò espandendo su molto, se non su tutto il cinema italiano, mutandone modalità di immaginario, opzioni tematiche, prassi d’ambientazione, tipologia della lingua parlata, scelte dei personaggi e degli eventi, ragioni drammatiche, comportamento attoriale e così via. Il N., è stato detto, ‘vince perché perde e perde perché vince’. Ovvero, come accadrà a tutte le vagues successive, l’ondata neorealista non riuscì ad affermarsi nel proprio radicalismo (quello, per intenderci, di Paisà, La terra trema, Umberto D. o di L’amore in città), che rimase eccezionale e isolato anche negli episodi meno frontalmente radicali, perché, da subito essa si scontrò con il cinema dominante, americano e italiano, con i gusti ‘evasivi’ del pubblico, con le leggi che dominavano il mercato e perse, dunque, a opera della rinascente industria cinematografica italiana che, d’altronde, dal 1945 al 1956 vide aumentare annualmente l’offerta (i film prodotti) e la domanda (i biglietti del pubblico in sala). Ma riuscì, involontariamente, a dare un contributo al risorgere di un’industria e di un mercato cinematografici italiani e, volutamente, a far tramontare irreversibilmente l’immaginario del precedente cinema nazionale, connotando tutto il cinema coevo e successivo (anche il film comico seriale, anche il cinema larmoyant, anche i prodotti di genere, anche i filoni ‘di profondità’) di topoi caratterizzati dallo sguardo neorealista, magari di segno rovesciato, come nel cosiddetto N. rosa, ma inimmaginabili nel prebellico cinema incentrato sulle vicende di timide e intraprendenti educande principi consorti e milionari affetti dal tedium vitae; e vinse, dunque, riuscendo a codeterminare il nuovo cinema nazionale che pure lo emarginò e lo schiacciò, ponendo fine in poche stagioni all”etica dell’estetica’ neorealista.Naturalmente tutto questo è apparso chiaro solo molti anni dopo, con un’analisi a posteriori. I neorealisti, quando già la stagione d’oro si era conclusa, continuarono a definirsi tali e a volere il proseguimento del movimento, pur se alcuni lo dichiararono superato, in nome del ‘realismo’, da Senso nel cinema e da Metello nella letteratura. Imperterrita, anzi sempre più accalorata e piena di presaga sensibilità verso il moderno, continuò la teorizzazione zavattiniana, carica di nostalgie neorealiste, anche quando Zavattini (esclusi un paio di tardivi esperimenti collettivi nei film-inchiesta come Le italiane e l’amore, 1961, e I misteri di Roma, 1963) era divenuto ormai uno sceneggiatore di film industriali. E ininterrotta fu la discussione sul cinema italiano, sia quando il N. aveva ancora una qualche vitalità, sia quando era ormai soltanto un mitico fantasma. A Roma, presso l’Associazione culturale cinematografica italiana e poi nel Circolo romano del cinema; quindi a Perugia, al primo convegno sul N. (24-27 sett. 1949), e a Parma, al secondo convegno (3-5 dic. 1953); infine nei dibattiti che si susseguirono, anche oltre, sulla stampa d’informazione (Cinema senza formule, in “Avanti!”, luglio-agosto 1955, 13 interventi; Cinema, pubblico e critica, in “l’Unità”, novembre 1955-aprile 1956, 40 interventi) e specialistica (Sciolti dal giuramento, in “Cinema nuovo”, giugno 1956-aprile 1958, 19 interventi), si proseguì, senza soluzione di continuità, a guardare il presente del cinema italiano alla luce di quell’utopia gloriosa e poco frequentata che era stato il N., di cui frattanto si espandevano in tutto il mondo (con particolare rilievo nel cosiddetto Terzo mondo), soprattutto la lezione etico-estetica ma anche il nuovo ‘sguardo’ sulla realtà e l’inedito immaginario che ne conseguiva. Se i primi dibattiti romani avvenivano ancora a caldo, il che giustificava gli entusiasmi, l’incontro di Perugia aveva avuto luogo in un clima di già avviato riflusso, il che spiega gli appelli unitari ma non l’assenza di analisi; mentre l’incontro di Parma era avvenuto a fronte ormai disgregato, il che ha fatto apparire astratte talune tetragone resistenze a prenderne atto (Continuare il discorso, suona un editoriale di “Cinema nuovo”, 15 dic. 1952, 1, p. 7), anche se alcuni, come Luigi Chiarini, avevano preso atto della crisi e della fine del clima di solidarietà nazionale che l’aveva codeter-minata, nonché del contributo al superamento del N. che veniva dai nuovi film di alcuni grandi maestri (Rossellini, Visconti) e di alcuni più giovani (Antonioni, il cui cinema, da Cronaca di un amore a Il grido, 1957, non fu che tesaurizzazione e superamento dello sguardo neorealista, ormai trasformato in ricetta commerciale e in base del cinema di genere). Divenne quindi necessario aspettare il ‘nuovo’ cinema degli anni Sessanta per “seppellire il padre neorealistico” (Paolo e Vittorio Taviani) e gli anni Settanta (e il grande convegno sul N. promosso dalla Mostra di Pesaro nel 1974) per ripensare criticamente il fenomeno, rivedendolo in tutta la sua grandezza etico-estetica e nella sublime riuscita artistica di alcuni suoi episodi, prendendo al tempo stesso atto della sua inadeguatezza a capire, affabulare e descrivere le contraddizioni, non meno lancinanti e complesse, ma diverse, della modernità.Per approfondimenti sui singoli autori si vedano anche le relative voci biografiche. 

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