IL MITO POEMI

Personaggi vari Odissea (2)

Ciconi(gr. Κίκονες) Antichi abitanti della Tracia, alleati, secondo l’epica omerica, dei Troiani. Ulisse nel ritorno da Troia ne distrusse la capitale Ismaro, ma poi i C., passati alla riscossa, lo costrinsero a fuggire uccidendogli 72 compagni.

LOTOFAGI (ΛωτοϕάγοιLotophăgi). – Quando Ulisse al ritorno da Ilio (Odissea, IX, versi 82-104), sta per doppiare il capo Malea, un vento che viene da nord lo respinge indietro lungo Citera.

Al decimo giorno approda al paese dei Lotofagi, che ai messi inviati da Ulisse a riconoscere il luogo fanno cordiali accoglienze e dànno da mangiare il loto, il quale produce oblio del passato e desiderio di non partirsi più di là: Ulisse deve a forza trascinare sulla nave i messi.

I Lotofagi vengono poi ricordati qua e là da autori greci e latini specialmente nell’uso di frasi come “mangiare il loto” o “partecipare della vita dei Lotofagi” che valgono quanto “dimenticare”. Gli antichi li collocavano in generale sulle coste della Libia, presso la piccola o presso la grande Sirte, o in un’isola dinnanzi alla piccola Sirte; talora invece nei pressi di Agrigento o di Camarina. Alcuni però mettevano i Lotofagi lontano sulle sponde del mare esterno. Una via di mezzo circa la patria dei Lotofagi seguiva Artemidoro presso Strabone considerando i Lotofagi originarî del più lontano occidente e venuti più tardi sino nei pressi di Cirene.

Polifemo (gr. Πολύϕημος, lat. Polyphemus)

Ciclope, figlio di Posidone e della ninfa Toosa, figlia di Forcide.

Nel 9° libro dell’Odissea è un rozzo e bestiale pastore monocolo, che, dopo aver ucciso e divorato alcuni compagni di Ulisse, fu da questo ubriacato e accecato con un palo aguzzo e arroventato; non riuscì perciò a prendere Ulisse e i compagni, che uscirono dalla sua grotta abbrancati al ventre dei montoni, né a far capire ai Ciclopi, che aveva chiamato in aiuto, il nome di chi lo aveva accecato, perché Ulisse, nel precedente colloquio, anziché Odyssèus (᾿Οδυσσεύς) si era nominato Ùtis (Οὖτις) “Nessuno”. Da allora cominciò la collera di Posidone, padre di Polifemo, contro Ulisse.

Nella poesia comica (e così nell’11° Idillio di Teocrito) Polifemo divenne l’innamorato ingenuo e sentimentale della ninfa Galatea. Fu spesso rappresentato nella pittura vascolare (vaso di Aristonoo) e in pitture o rilievi ellenistici. 

Il mito del ciclope Polifemo e di Galatea è stato ripreso, nell’epoca moderna, da L. de Góngora nel poemetto Fábula de Polifemo y Galatea (1611), e da A. Samain nel dramma postumo Polyphème (1901). 

Tra le varie opere musicali eccelle l’oratorio profano Acis and Galatea di G. F. Händel (1720).

EOLO (ΑἴολοςAeolus). – Personaggio mitico greco.

L’episodio più noto della leggenda di E. è quello che si riferisce alla sua condotta con Ulisse, che da lui riceve in dono i venti chiusi in un otre; quando i compagni d’Ulisse aprirono l’otre e i venti lo ricondussero all’isola, E. rifiutò a Ulisse ogni aiuto ritenendolo perseguitato dagli dei. Ricordando che su Lesbo regnava Macareo, figlio di E., non è improbabile che, se non il poeta dell’Odissea, almeno l’antico cantore cui il poeta dell’Odissea s’ispirò ponesse la sede di E. a Lesbo.

Per effetto della colonizzazione greca della Sicilia e dell’Italia meridionale, E. e l’isola di E. vennero ben presto localizzati in Sicilia; e si combinarono miti locali della Sicilia e dell’Italia con la leggenda di E. Liparo sarebbe fuggito dall’Italia dinnanzi al fratello usurpatore e avrebbe posto la sua sede nell’isoletta che da lui avrebbe preso il nome. E., figlio di Ippote, avrebbe sposato Ciane, figlia di Liparo, e quindi avrebbe secondato il desiderio del suocero di tornare in Italia, assicurandogli il dominio del territorio intorno a Sorrento. Secondo un’altra tradizione E. avrebbe sposato Telepatra, dalla quale avrebbe avuto sei figli maschi e sei femmine. Secondo un’altra tradizione più vicina alla genuina E. sarebbe stato fratello di Doro e Xuto, figlio di Elleno, e sarebbe stato padre di sette figli, Sisifo, Creteo, Atamante, Deione, Periere, Salmoneo, Magnete.

L’Eolo, re di Lesbo, e la sua pretesa progenie sono stati oggetto di trattazione da parte dei poeti tragici; la figlia Melanippe dà il titolo a una tragedia di Euripide (Μελανίππη δεσμῶτις): avrebbe partorito da Posidone Beoto ed Eolo omonimo dell’avo. I gemelli, dopo che la madre fu imprigionata e accecata, furono esposti nel territorio del re Metaponto d’Icaria, la cui moglie Teano (Θεανώ) li allevò; la figlia Canace sarebbe stata vittima d’un amore incestuoso del fratello Macareo, e perciò sarebbe stata uccisa dal padre.

Bibl.: Roscher, in Lexikon d. gr. u. röm. Mythol., I, i, coll. 192-195; Tümpel, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., I, coll. 10-36-1041; C. Robert, Griechische Heldensage, Berlino 1923, I, pp. 51-53.

I Lestrigoni

Nella mitologia greca, il popolo dei Lestrigoni (gr. Λαιστρυγόνες, lat. Laestrygŏnes), era costituito da giganti antropofagi presso i quali, secondo Omero, sarebbe approdato Ulisse. Più tardi questo popolo fu localizzato in Sicilia o nella regione di Formia.

Circe (gr. Κίρκη) Divinità della mitologia greca, figlia di Elio e di Perse, sorella di Eeta e di Pasifae. Dimorava nella mitica isola Eea (Αἰαίη) che la tradizione antica fissò nel promontorio del Lazio, da C. poi detto  Circeo. Nell’Odissea, C. trasforma in porci i compagni di Ulisse, mandati a esplorare l’isola. L’eroe, dopo aver ottenuto la restituzione dei compagni a sembianze umane, vive amorosamente con C. per un anno, dopo di che parte accompagnato dai suoi consigli. Alcune leggende volevano che da Ulisse C. avesse avuto Telegono, che poi uccise il padre. Miti più recenti collegano C. con l’origine di stirpi e città italiche; il personaggio ha anche parte nel ciclo degli Argonauti.

Cimmeri (gr. Κιμμέριοι) Antica popolazione, forse tracia, stanziata nella Crimea; nell’8° sec. a.C. invase l’Asia Minore portando devastazione, finché verso il 600 a.C. fu scacciata dal re Aliatte di Lidia.In Omero i C. sono i mitici abitanti di un non ben individuato settentrione.

Le ombre dell’Ade

(‘Αίδης o ‘Αϊδωνεύς). – Nome col quale gli antichi Greci designavano la divinità che reputavano regnare su tutte le regioni dell’oltretomba; chiamata spesso anche Plutone (Πλούτων) o Giove sotterraneo (Ζεὺς καταχϑόνιος). Figlio di Crono e di Rea, fratello di Zeus, Posidone ed Era, aveva partecipato coi fratelli alla lotta contro i Titani; e, dopo la vittoria, nella divisione del mondo fra i tre fratelli, la sorte gli assegnò il sotterra col regno dei morti (Iliade, XV, v. 191). Nella mitologia, Ade ha poco posto: confinato nel suo regno, egli nulla sa di ciò che succede sulla terra e nell’Olimpo (Iliade, XX, v. 61 segg.), e soltanto due volte interrompe la sua dimora sotterranea; la prima, per il ratto di Persefone, la seconda, per salire sull’Olimpo a farsi curare la ferita inflittagli da Eracle (Iliade, V, v. 399)

Ade significa “l’invisibile”: infatti il suo regno (la “casa di Ade”: δόμος “Αιδος) è avvolto nelle tenebre (cfr. Iliade, XV, v. 187), e simbolo della invisibilità del dio è l’elmo che gli copre tutta la testa (“Αιδος κυνέη). Sta al suo fianco Persefone, regina dell’oltretomba come Era è regina del cielo, designata perciò spesso dai poeti latini come Iuno infernaavernastygia (v. persefone). Insieme alla sposa divina, Ade abita laggiù un palazzo circondato da giardini e boschetti: nemico alle gioie della vita, detestato dagli dei, paventato dagli uomini, regna terribile su di un mondo che porta lo stesso suo nome: l’Ade. Ognuno che in esso sia entrato non ha speranza di uscirne: né con preghiere né con libagioni né con sacrifici Ade si placa.

Tuttavia anche queste divinità infere avevano culto: si tratta però di culti singoli e locali, nei quali Ade, come gli altri dèi ctonî, appare notevolmente modificato. Come dio che dimora sotterra, egli è riguardato e venerato piuttosto come una divinità benefica inquantoché ai vivi favorisce il lavoro dei campi e la vegetazione delle semente ed elargisce i preziosi metalli che la terra nasconde nel suo seno, e i morti accoglie nella sua tenebrosa dimora (cfr. Esiodo, Op., v. 465). Così Ade è spesso riguardato come un dio dell’abbondanza e della ricchezza: e, come tale, spesso rappresentato con la cornucopia e chiamato appunto Plutone, cioè il “dispensatore della ricchezza”. Con questo nome si comincia a trovar designato il dio dell’oltretomba nei poeti attici del sec. V (p. es., Eschilo, Pers., v. 806; Sofocle, Antig., v. 1200), eppoi sempre più frequentemente, specie per influsso del culto eleusino. Al culto dei misteri di Eleusi (v.) si deve anche se la figura di Ade andò, a mano a mano, perdendo alquanto della sua originaria terribilità e trasformandosi in una potenza divina alla quale si pensa, bensì, con timore e anche con raccapriccio, ma alla quale ci si può talora rivolgere con confidenza e con speranza. Piuttosto che col suo nome di Ade o di Plutone si preferiva invocare il dio dell’Inferno con qualcuno dei suoi epiteti eufemistici, alludenti tutti agli aspetti più elevati e benefici della sua attività (cfr. Platone, Cratilo, 403 a). Così egli è Κλύμενος, cioè “l’illustre”, nel culto di Atene e di Ermione; nei culti delle Cicladi è Εὐβουλεύς “il benevolente”; altrove è Πολυδέκτης o Πολυδέγμων, cioè “colui che accoglie molti ospiti” (i defunti che vanno a lui); oppure ‘Αγησίλαος “il grande adunator di popoli”; o ‘Ισοδαίτης “quegli che ad ognuno il giusto dispensa”; o anche Τροϕώνιος “colui che rende più fertile la terra” (per gli epiteti di Ade, v. specialmente Scherer in Roscher, Lexicon, I, p. 1782 segg.). Lo si rappresentava di solito montato su di un rapido cocchio, quello col quale era salito dall’Inferno sulla terra per rapire Persefone: onde gli epiteti di Κλυτόπωλος e di Χευσήνιος (“dagl’incliti cavalli”, “dalle briglie d’oro”).

L’oltretomba greco. – Come abbiamo detto, col nome di Ade i Greci antichi designavano anche il regno delle divinità infere; cioè, in genere, l’oltretomba. La più semplice e antica rappresentazione che ne conosciamo, è quella omerica, dell’Odissea (specialmente nei libri XI e XXIV). Il poeta dell’Odissea conosce, per gli dei, l’Olimpo, un luogo “che i venti non commuovono, né bagna la pioggia, né mai la neve ingombra”, un luogo “folgorante di rame, oro, elettro ed argento”: paradiso chiuso ai mortali; dei quali solo ad alcuni pochi più insigni e privilegiati è dato di abitare, dopo la morte, un luogo di delizie, agli estremi confini della terra, dove “senza affanni scorre la vita; e non neve, non inverno, non pioggia, ma sempre i soffî vivi e spiranti di Zeffiro invia l’oceano a rinfrescar le genti”. Ma tutti gli altri, forti ed imbelli, potenti ed umili, scendono nella “casa di Ade” o, più semplicemente, nell’Ade. Allo spegnersi della vita, quando lo spirito vitale (ϑυμός) abbandona il corpo, l’anima (ψυχή) ne esce volando e scende stridendo nel regno di Plutone (più tardi la si immaginerà accompagnata da Ermete Psicopompo): regione tenebrosa, dalle larghe porte sempre a tutti aperte, tanto che essa viene talora chiamata senz’altro “la porta dell’Ade” (Iliade, V, v. 395 segg.; XXIII, v. 71). Ma benché larghe e sempre aperte siano quelle porte che tutti accolgono, pure, una volta varcate, a nessuno è dato di ritornare indietro; ché, a custodia della soglia, sta l’orrendo cane di Ade, che Omero conosce ma lascia innominato, mentre per la prima volta in Esiodo (Theog., v. 311) è designato col nome di Cerbero (v.): mansueto verso chi entra, terribile e mordace contro chiunque tenti di uscire. Ed anche i fiumi infernali sono noti ad Omero: lo Stige (Il., VIII, v. 365 segg.), l’Acheronte, il Piriflegetonte o “fiume di fuoco”, il Cocito o “fiume di pianto” (Odiss., X, v. 513) mentre la figura del vecchio traghettatore, Caronte, non comparisce se non nei ciclici posteriori. Nell’Erebo omerico vivono i morti in sembianze umane ombre senza realtà corporea, ma con apparenza corporea (εἴδωλα, σκιαί) – ma “senza senno”, senza dolori e senza gioie, come immerse in un perenne stupore. “Non consolarmi della morte – dice Achille ad Ulisse che, sceso nell’Ade, tenta di confortarlo – io pria torrei servir bifolco per mercede a cui scarso e vil cibo difendesse i giorni che del mondo defunto aver l’impero”. Né v’è traccia in Omero di una credenza in un giudizio ultraterreno, e cioè in una ricompensa o in un castigo delle azioni del morto: la poesia omerica conosce solo la pena cui soggiacciono gli spergiuri, e alcuni singoli “espianti” ai quali i poeti posteriori aggiunsero altri nemici degli dei, come Tamiri, Anfione, Issione, Tantalo, ecc. Si può pensare che queste figure di espianti non siano state in origine altro che immagini della punizione divina che colpisce in vita, trasportate nell’oltretomba solo per finzione poetica e per rappresentare l’eterna durata della loro pena.

Per quanto la topografia degli inferi sia rimasta sempre, nella poesia greca antica, piuttosto indefinita, si possono tuttavia identificare due concezioni, notevolmente diverse, di essa: secondo l’una, la più antica e la più frequente (Iliade, IX, v. 568; XXII, v. 482; XX, v. 61), l’oltretomba veniva localizzato nel più profondo della terra; secondo l’altra, invece, posteriore e meno frequente (Odissea, X, v. 508 segg.; forse anche Esiodo, Teogonia, v. 767 segg.), nelle lontane regioni dell’Occidente, in un’isola dell’Oceano, ove regna eterna la notte, o, più precisamente anche, nel paese abitato dal popolo – miticamente elaborato su basi storiche – dei Cimmerî (Odissea, XI, v. 13 segg.).

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