Letteratura italiana

XII – L’Infinito

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.

Note

ermo colle: Il monte Tabor, un colle che si alza a sud di Recanati.

 io nel pensier mi fingo: cioè, “immagino questa situazione con gli strumenti della mia fantasia”.

 il cor non si spaura: il motivo è presente, com’è noto, anche nei Pensieri di Blaise Pascal: “Le silence éternel de ces espaces infinis m’effraie” [“il silenzio eterno di questi infiniti spazi mi spaventa”].

 La congiunzione ha qui una sfumatura anche temporale: “quando”, “non appena”.

 mi sovvien l’eterno: indica la repentinità del movimento di pensiero del poeta che, di fronte all’infinito e al nulla in cui l’uomo pare annientarsi e al rumore del vento tra le fronde che gli suona noto e famigliare, intuisce il senso dell’eternità e del trascorrere dello spazio-tempo contrapposto alla finitezza dell’uomo.

Parafrasi

  1. Questo colle solitario mi è sempre stato caro,
  2. e anche questa siepe, che impedisce al mio sguardo
  3. una gran fetta dell’orizzonte più lontano
  4. Ma mentre siedo e fisso lo sguardo sulla siepe,
  5. io immagino gli sterminati spazi al di là di quella,
  6. i silenzi che vanno al di là dell’umana comprensione
  7. e la pace profondissima, tanto che per poco
  8. il mio cuore non trema di fronte al nulla. Quando sento
  9. le fronde delle piante stormire al vento, così paragono
  10. la voce del vento con quel silenzio infinito:
  11. e istintivamente mi giunge in mente il pensiero dell’eternità,
  12. le ere storiche già trascorse e dimenticate e quella attuale
  13. e ancor viva, col suo suono. Così il mio ragionamento
  14. si annega in quest’immensità spazio-temporale,
  15. e per me è un naufragare dolcissimo. 

Analisi

L’infinito, composto nella natìa Recanati nel 1819 (approssimativamente tra la primavera e l’autunno) viene inizialmente pubblicato sul milanese «Nuovo Ricoglitore» del dicembre 1825, per poi comparire nell’edizione dei Versi del conte Giacomo Leopardi (Stamperia delle Muse, Bologna, 1826) e successivamente nei Canti (Piatti, Firenze, 1831). Al poeta si presenta una visione limitata dell’orizzonte, ostacolata da una siepe, posta sulla cima di un colle. La vista impedita permette a Leopardi di fantasticare e meditare sull’infinito. L’idillio si basa su un confronto continuo tra limite e infinito, tra suoni della realtà e il silenzio dell’eternità. Il componimento è in endecasillabi sciolti, forma metrica che Leopardi trova più adatta per rendere il ritmo e i moti dell’animo.

L’infinito è una delle più celebri poesie di Leopardi: composta nel 1819, si trova nella raccolta degli Idilli. Con il termine “idillio” l’autore si richiama alla tradizione poetica classica di Teocrito e dei poeti alessandrini.L’idillio è un’immagine piccola, ristretta e limitata. Così paradossalmente il senso del limite e la visuale ristretta sono alla base dell’Infinito.
Nel componimento ci si trova davanti a una doppia immagine: quella degli occhi, limitata e sbarrata, e un’immagine virtuale, che “nel pensier si finge”. L’immagine creata dal poeta è così forte e intensa che per poco il suo animo non si spaventa. In tutta la poesia è presente un passaggio tra ciò che vediamo e sentiamo e ciò che immaginiamo, ricordiamo e presentiamo. Questo continuo spostamento tra piano reale e piano fittizio, che Cortellessa esprime parlando di oscillazione tra “piano empirico” e “piano virtuale”,spinge il soggetto all’estremo limite delle sue facoltà razionali. Ciò ricorda a Leopardi l’immagine di un naufragio o della morte stessa.

Interpretazione critica

In questo idillio, come è noto, Leopardi vuole suscitare nel lettore principalmente due sensazioni: una visiva e una uditiva. La prima porterà alla percezione di un infinito spaziale e la seconda temporale. Tali percezioni di infinità – come ha ormai certificato la critica moderna – non concedono niente alla teologia, alla metafisica e, più in generale, all’ambito del sacro, ma sono tutte interne alla finzione immaginativa e poetica. È più giusto dunque parlare, come osserva Walter Binni, di un canto “sorretto da un sobrio e solido processo intellettuale, da un movimento di esperienza interiore, quasi un itinerarium mentis in infinitum”. L’idillio è insomma – coerentemente alla definizione che si legge nei Disegni letterari – “un’avventura storica dell’animo” del poeta, che racconta di un’estasi dei sensi, i quali, di fronte alla figurazione momentanea dell’infinito, prima si “spaurano” e poi “naufragano dolcemente”. Per rendere questo duplice piano psicologico-percettivo Leopardi adotta precise tecniche espressive, che esemplificano al meglio la sua idea di poesia “vaga e indefinita” teorizzata a più riprese nello Zibaldone (cfr. almeno pp. 514-16, 1430-31, 1744-47), la quale, a sua volta, trova il principale nucleo ideologico nella famosa “teoria del piacere” (pp. 165-72), dove, tra l’altro, si parla proprio dell’“inclinazione dell’uomo all’infinito” (Zibaldone, luglio 1820)

Iniziamo ad osservare la sintassi. A parte il primo e l’ultimo verso, i restanti tredici non formano enunciazioni isolabili, ma sono legati tra loro in un “continuum metrico-sintattico”, come lo definisce Luigi Blasucci, che abbraccia l’intera poesia. Se guardiamo il totale dei versi, infatti, balza immediatamente all’occhio che ben dieci sono collegati da enjambements, che così contribuiscono a sviluppare un discorso poetico assai “legato” e coeso. Non solo. Avverbi, congiunzioni e connettivi in genere abbondano in tutto l’idillio: “ma sedendo” (v. 4), “ove per poco” (v. 7), “e come il vento” (v. 8), “e mi sovvien” (v. 11), “così tra questa immensità” (vv. 14-15), “e il naufragar” (v. 15).  La congiunzione, poi, ha un ruolo veramente determinante perché collega per polisindetotanto i singoli elementi descrittivi (vv. 5-7: “interminati | spazi di là da quella, e sovrumani | silenzi e profondissima quiete”), quanto i passaggi tematici della poesia, trovandosi in quest’ultimo caso sempre in posizione forte di inizio verso o di inizio proposizione (v. 2: “e come il vento”; v. 15: “e il naufragar”).

Anche il lessico è volutamente selezionato, così da allontanare le percezioni di finitudine, di concretezza e di precisione a vantaggio di una sensazione indeterminata e dilatata sia nello spazio che nel tempo. Nella prima parte (quella dedicata all’infinito “spaziale”) Leopardi sceglie aggettivi polisillabici, con valore superlativo (“interminati”, v. 4; “sovrumani”, v. 5; “profondissima”, v. 6), accoppiandoli a sostantivi astratti di valore assoluto (“spazi”, v. 5; “silenzi”, v. 6; “quiete”, v. 6). Mantengono lo stesso valore anche i sostantivi della seconda parte (ove predomina l’infinito “temporale”) come “eterno” (v. 11) e “stagioni” (v. 12), affiancati però ad aggettivi con un minor numero di sillabe: non più quadrisillabi o pentasillabi, ma trisillabi: “morte” (v. 12), “presente” (v. 12), “viva” (v. 13). Ancora più brevi le scelte lessicali del momento conclusivo, dove si scende a due sillabe: “dolce” (v. 15) e “mare” (v. 15). Una funzione essenziale rivestono, inoltre, gli aggettivi dimostrativi, che collocano nello spazio l’esperienza psicologica della poesia, che pure trascende uno spazio e un luogo specifici. Inizialmente essi accompagnano riferimenti toponomastici precisi (“quest’ermo colle”, v. 1; “questa siepe”, v. 2; e “queste piante”, v. 9, sono senz’altro quelli che il poeta ha davanti a sé, vale a dire sul Monte Tabor di Recanati, dietro il “paterno ostello”), per poi andare ad affiancare elementi con valenza più generica e indeterminata (“questa immensità”, vv. 13-14; “questo mare”, v. 15).

Infine vale la pena osservare – sempre con l’aiuto degli insostituibili studi di Luigi Blasucci – come tutto l’idillio sia pervaso da un’atmosfera emotivamente vibrante, in cui traspare il coinvolgimento non solo di un io fittizio e impersonale, ma anche di un io interno e effettivamente coinvolto nell’esperienza. Pare insomma che Leopardi, da questi celebri versi, voglia anche lasciar intravedere in filigrana il suo volto, il suo rapporto col luogo da cui si irradia questa esperienza. Lo si può ben osservare nel primo verso dove il “colle”, teatro della scena, è luogo da “sempre caro”, carico quindi di ricordi e di familiarità (confermata dall’incipit di Alla luna, vv. 1-3: “O graziosa luna io mi rammento | che, or volge l’anno, sovra questo colle | io venia pien d’angoscia a rimirarti”). E lo si può notare dall’uso, in seguito ripetuto, del dativo etico o d’affettoespresso dal sintagma “mi”. Dunque un luogo dell’assoluto, senz’altro; ma anche un luogo reale, che fu da sempre “a me” – cioè a Giacomo Leopardi – “caro”, e un “naufragare” dei sensi che “a me”, al poeta e filosofo precocemente impegnato nel disvelamento dell’“arido vero”, non può che riuscire “dolce”. 

Bibliografia essenziale:

– W. Binni, La protesta di Leopardi, Firenze, Sansoni, 1973.
– L. Blasucci, Leopardi e i segnali dell’infinito, Bologna, Il Mulino, 1985.
– F. Brioschi, La poesia senza nome. Saggio su Leopardi, Milano, Il Saggiatore, 1980.

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